Paradiso, Canto XVII
A. Nattini, L'esilio di Dante
"...Qual si partio Ipolito d'Atene
per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene..."
"...Le sue magnificenze conosciute
saranno ancora, sì che' suoi nemici
non ne potran tener le lingue mute..."
"...Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua vision fa manifesta;
e lascia pur grattar dov'è la rogna..."
per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene..."
"...Le sue magnificenze conosciute
saranno ancora, sì che' suoi nemici
non ne potran tener le lingue mute..."
"...Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua vision fa manifesta;
e lascia pur grattar dov'è la rogna..."
Argomento del Canto
Ancora nel V Cielo di Marte. Dante chiede all'avo Cacciaguida notizie sulla sua vita futura: profezia dell'esilio da Firenze. Profezia sulle gesta di Cangrande Della Scala. Dubbi di Dante e dichiarazione della sua missione poetica.
È il mattino di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
È il mattino di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
Dante chiede a Cacciaguida notizie sulla sua vita futura (1-30)
P.P. Rubens, Caduta di Fetonte (1604)
Dante si sente come Fetonte quando si rivolse alla madre Climene per avere notizie certe su suo padre Apollo, il che è avvertito da Beatrice e dall'anima dell'avo Cacciaguida. La donna invita Dante a manifestare il suo pensiero, non perché le anime non possano conoscere i suoi desideri, ma affinché il poeta si abitui a esprimerli liberamente così che vengano esauditi. Dante si rivolge allora a Cacciaguida e gli ricorda, come lui ben sa leggendo nella mente di Dio, che guidato da Virgilio egli ha udito all'Inferno e in Purgatorio delle oscure profezie sul suo conto, per cui il poeta vorrebbe avere maggiori ragguagli in merito: benché, infatti, egli sia preparato ai colpi della sorte, una sciagura prevista è più facile da affrontare. Dante in questo modo obbedisce a Beatrice e rivela ogni suo dubbio all'anima del suo antenato.
Cenni di Cacciaguida alla prescienza divina (31-45)
Cacciaguida risponde splendendo nella sua luce, con un discorso chiaro e perfettamente comprensibile e non con le espressioni tortuose e oscure proprie degli oracoli delle divinità pagane: il beato spiega che tutti i fatti contingenti, presenti e futuri, sono già scritti nella mente divina, il che non implica che debbano accadere necessariamente, come l'occhio che osserva una nave scendere la corrente di un fiume sa che questo avverrà, ma non lo rende per ciò inevitabile. Allo stesso modo, spiega Cacciaguida, egli prevede il tempo futuro di Dante, come la dolce musica di un organo giunge alle orecchie umane.
L'esilio di Dante (46-69)
J. Flaxman, Esilio di Dante
Dante, profetizza l'avo, dovrà abbandonare Firenze allo stesso modo in cui Ippolito dovette partire da Atene per la malvagità della sua matrigna. Questo è voluto e cercato già nell'anno 1300 da papa Bonifacio VIII, nella Curia dove ogni giorno si mercanteggia Cristo: la colpa dell'esilio verrà imputata ai vinti, così come di solito avviene, ma ben presto la punizione verso i Fiorentini dimostrerà la verità dei fatti. Dante dovrà lasciare ogni cosa più amata, ciò che costituisce la prima pena dell'esilio, quindi proverà com'è duro accettare il pane altrui mettendosi al servizio di vari signori. Ciò che gli sarà più fastidioso sarà la compagnia di altri fuorusciti, sempre pronti a mettersi contro di lui, tuttavia saranno loro e non Dante ad avere le tempie rosse di sangue e di vergogna nella battaglia della Lastra. Le conseguenze del loro comportamento dimostreranno la loro follia, così che per Dante sarà stato molto meglio fare parte per se stesso.
Profezie su Cangrande Della Scala (70-99)
Statua di Cangrande (foto di F. I. Helland)
Dante troverà anzitutto rifugio a Verona, sotto la protezione di Bartolomeo Della Scala che sullo stemma della casata reca l'aquila imperiale: egli sarà così benevolo verso il poeta che gli concederà i suoi favori senza bisogno di ricevere richieste. A Verona Dante vedrà colui (Cangrande) che alla nascita è stato fortemente influenzato dal pianeta Marte, così che le sue imprese saranno straordinarie. Nessuno se n'è ancora accorto perché molto giovane, avendo egli solo nove anni, ma prima che papa Clemente V inganni Arrigo VII di Lussemburgo il suo valore risplenderà chiaramente, mostrando la sua noncuranza per il denaro e gli affanni. Le sue gesta saranno così illustri che i suoi nemici non potranno tacerle, quindi Dante dovrà attendere il suo aiuto e i suoi favori, dal momento che Cangrande ha generosamente mutato le condizioni di molte persone, trasformando i mendicanti in ricchi e viceversa. Cacciaguida aggiunge altri dettagli relativi alle future imprese di Cangrande, imponendo però il silenzio a Dante che ascolta incredulo quanto riferito dall'avo. Cacciaguida conclude dicendo a Dante che non dovrà serbare rancore verso i suoi concittadini, poiché la sua vita è destinata a durare ben oltre la punizione che li colpirà.
Dubbi di Dante (100-120)
Dopo che il beato ha terminato di parlare, Dante torna a rivolgersi a lui in quanto desidera ricevere una spiegazione e un conforto, certo di trovarsi di fronte a un'anima sapiente, virtuosa e amorevole. Dante dichiara di rendersi conto che lo aspettano aspre vicissitudini, per cui è bene che sia previdente e che non si precluda il possibile rifugio in altre città a causa dei suoi versi, visto che dovrà lasciare Firenze. All'Inferno, in Purgatorio e in Paradiso il poeta ha visto cose che, se riferite dettagliatamente, suoneranno sgradevoli a molti; tuttavia, se egli non dirà tutta la verità della visione, teme di non ottenere la fama destinata a renderlo famoso presso le generazioni future.
Dubbi di Dante (100-120)
Dopo che il beato ha terminato di parlare, Dante torna a rivolgersi a lui in quanto desidera ricevere una spiegazione e un conforto, certo di trovarsi di fronte a un'anima sapiente, virtuosa e amorevole. Dante dichiara di rendersi conto che lo aspettano aspre vicissitudini, per cui è bene che sia previdente e che non si precluda il possibile rifugio in altre città a causa dei suoi versi, visto che dovrà lasciare Firenze. All'Inferno, in Purgatorio e in Paradiso il poeta ha visto cose che, se riferite dettagliatamente, suoneranno sgradevoli a molti; tuttavia, se egli non dirà tutta la verità della visione, teme di non ottenere la fama destinata a renderlo famoso presso le generazioni future.
La missione poetica di Dante (121-142)
G. di Paolo, Le profezie di Cacciaguida
La luce che avvolge Cacciaguida risplende come uno specchio d'oro colpito dal sole, quindi l'avo risponde dicendo che i lettori con la coscienza sporca per i peccati propri o di altri proveranno fastidio per le sue parole, e tuttavia egli dovrà rimuovere ogni menzogna e rivelare tutto ciò che ha visto nel viaggio ultraterreno, lasciando che chi ha la rogna si gratti. Infatti i suoi versi saranno sgradevoli all'inizio, ma una volta digeriti saranno un nutrimento vitale per le anime. Il grido di Dante sarà come un vento che colpisce più forte le più alte cime, il che non è ragione di poco onore, e per questo nei tre regni dell'Oltretomba gli sono state mostrate solo le anime note per la loro fama: il lettore non presterebbe fede ad esempi che fossero oscuri e non conosciuti da tutti, né ad altri argomenti che non fossero evidenti di per sé.
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Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto dei Canti XVII-XXII, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" Qui un breve video sul tema dell'esilio di Dante Alighieri, tratto dal canale YouTube Video Letteratura |
Interpretazione complessiva
Il Canto chiude il «trittico» dedicato all'incontro con l'avo Cacciaguida e alla definizione della missione poetica di Dante, dopo il XV in cui l'antenato si era presentato rievocando l'antica Firenze del XII sec. e dopo il XVI in cui, dopo l'analisi delle cause della decadenza morale della città, c'era stata la rassegna delle principali famiglie fiorentine cadute poi in declino. Firenze è ancora al centro del Canto XVII, poiché Dante chiede all'avo spiegazioni circa l'esilio che gli è stato più volte preannunciato nel corso del viaggio ultraterreno, il che indurrà poi il poeta a manifestare i suoi dubbi circa l'adempimento della missione: lo stile è retoricamente elevato, già in apertura con il paragone fra Dante e Fetonte che si rivolse alla madre Climene per avere rassicurazioni sul fatto che Apollo fosse suo padre, mentre qui il poeta vuole avere conferma circa le parole spesso malevole che ha udito contro di sé (anche Fetonte, secondo il mito classico, aveva subìto lo scherno di Epafo che non credeva fosse figlio di Apollo). È molto evidente poi il parallelismo, come nel Canto XV, fra Dante e Enea che incontra il padre Anchise nel libro VI dell'Eneide, in quanto Cacciaguida profetizza a Dante l'esilio e lo investe dell'alta missione poetica che gli ha affidato la Provvidenza, proprio come Anchise preannunciava al figlio le guerre che lo attendevano nel Lazio e la missione provvidenziale della fondazione di Lavinio, da cui avrebbe avuto origine la stirpe romana. La stessa rassegna delle antiche famiglie di Firenze nel Canto XVI si rifaceva alla presentazione da parte di Anchise dei futuri eroi di Roma, mentre in questo episodio tutto è centrato su Dante destinato a lasciare la sua città in seguito alle vicende politiche del 1301-1302 e, come esule sconfitto politicamente, ad adempiere all'altissimo incarico di cui è investito: il discorso di Cacciaguida è chiaro e privo di ambiguità, diverso dunque dalle velate allusioni di personaggi come Farinata, Brunetto Latini e Oderisi da Gubbio che avevano predetto l'esilio in modo oscuro, ma diverso anche dai responsi oracolari degli dei pagani che si prestavano a doppie interpretazioni (il riferimento è anche alla Sibilla cumana, che Enea incontra nel suo antro e alla quale chiede espressamente una profezia, prima di compiere la discesa agli Inferi dietro la sua guida). Dopo l'accenno al delicato problema della prescienza divina, che non determina in modo necessario gli eventi pregiudicando così il libero arbitrio, Cacciaguida annuncia a Dante che dovrà lasciare Firenze per la malvagità dei suoi concittadini, come Ippolito fu costretto a lasciare Atene per la perfidia della matrigna Fedra (il parallelo Firenze-Atene era quasi un classico nella letteratura del Due-Trecento, già visto in Purg., VI, 139, sia pure in chiave ironica). Più che alle beghe cittadine tra le opposte fazioni di Guelfi Bianchi e Neri, l'avo riconduce la questione dell'esilio alla caparbia volontà di papa Bonifacio VIII di favorire la parte Nera in combutta con la monarchia francese e Carlo di Valois, per cui la vicenda personale di Dante si inserisce in un più ampio contesto politico che va oltre la prospettiva comunale di Firenze e riguarda il conflitto tra potere papale e autorità imperiale, fonte secondo Dante dei mali poltici dell'Italia. Cacciaguida predice a Dante le amarezze e le sofferenze del suo girovagare di città in città, accusato di falsi crimini dai suoi ex-concittadini e in contrasto con gli altri fuorusciti destinati ad essere sconfitti nella battaglia della Lastra, costretto infine a mendicare il pane dai signori che gli offriranno protezione e rifugio: tra questi spiccano naturalmente gli Scaligeri di Verona, soprattutto quel Cangrande che sarà il principale protettore del poeta e al quale Dante dedicherà proprio il Paradiso, indirizzandogli anche la famosa e discussa Epistola XIII che sarà fondamentale per l'interpretazione del poema. Cangrande si colloca al centro della profezia dell'esilio, in quanto Cacciaguida ne traccia un piccolo panegirico e lo presenta come personaggio destinato a grandi imprese, che mostrerà il suo valore militare e politico disdegnando le ricchezze e soprattutto tenterà di ristabilire l'autorità imperiale in Italia del Nord: non a caso egli è stato identificato sia col «veltro» di Inf., I, 101 ss., sia col «DXV» di Purg., XXXIII, 37 ss., e non è da escludere che proprio la sua azione sia da mettere in rapporto con la prossima punizione di Firenze che è preannunciata qui da Cacciaguida e altrove dallo stesso Dante, essendo legata probabilmente al rovesciamento del governo dei Neri da parte di un vicario imperiale destinato a ristabilire la legge e la giustizia, sia questi Cangrande o un altro personaggio. Naturalmente questo resterà un sogno mai realizzatosi, così come anacronistica e non in linea con i tempi era la posizione politica di Dante relativamente al ruolo dell'Impero in Italia, ma l'attesa fiduciosa di un personaggio in grado di porre fine ai soprusi e alle ingiustizie politiche attraversa vivissima l'intero poema ed è lo sprone che induce Dante a compiere la sua missione poetica fino in fondo, senza mostrare mai il minimo cedimento o timore.
Questa missione è poi solennemente dichiarata da Cacciaguida a Dante nella seconda parte del Canto, dopo che il poeta ha espresso i suoi dubbi che nascono proprio dalla profezia dell'esilio delineatasi finalmente con chiarezza: Dante sa che è chiamato dalla Provvidenza a rivelare tutto ciò che ha visto nel corso del viaggio, ma sa anche che i suoi versi riusciranno sgraditi a molti e quindi teme di precludersi possibili aiuti e protezioni se dirà tutta la verità, rischiando in caso contrario di scrivere un'opera di poco peso e, quindi, di non ottenere la fama imperitura. La risposta di Cacciaguida è tale da non lasciare incertezze ed è una chiara esortazione a non essere timido amico della verità, poiché proprio questo è il compito di Dante: nei tre luoghi dell'Oltretomba gli sono stati mostrati exempla di anime dannate o salve secondo il criterio della notorietà, poiché solo attraverso personaggi conosciuti il lettore ne sarà colpito al punto di modificare la sua condotta, dunque sarebbe una grave mancanza da parte di Dante omettere qualche particolare della «visione» o tacere i nomi di quei personaggi da cui potrebbe attendersi ostilità o ritorsioni. Il valore del poema è allora soprattutto quello di un'alta denuncia contro i mali dell'Italia del tempo, che sono legati all'assenza di una autorità centrale in grado di garantire le leggi, alla corruzione diffusa capillarmente nella Chiesa, più in generale all'avidità di guadagno che è dovuta alla diffusione del denaro: Dante non dovrà tirarsi indietro rispetto a tale compito e dovrà quindi riferire fedelmente tutto ciò che gli è stato mostrato, ovvero la condizione delle anime post mortem che secondo la finzione del poema (e in base a quanto Dante stesso afferma nell'Epistola XIII) gli viene fatta conoscere da vivo in virtù di un altissimo privilegio e in considerazione dei suoi meriti poetici. Il discorso di Cacciaguida è perciò stilisticamente solenne, ma non rinuncia talvolta ad espressioni crude e di immediata evidenza, come la frase lascia pur grattar dov'è la rogna che rende bene l'idea della missione affidata a Dante, quella cioè di dire la verità anche quando questa suonerà sgradevole alle orecchie dei potenti (in XXVII, 22-27 san Pietro userà parole ancor più dure contro Bonifacio VIII, colpevole di aver trasformato il Vaticano una cloaca / del sangue e de la puzza); del resto la voce del poeta sarà simile a un vento che colpirà maggiormente proprio le cime più alte, ovvero i personaggi più illustri del tempo che erano più di altri responsabili della decadenza morale e politica dell'Italia, per cui solo in tal modo Dante potrà legittimamente aspettarsi la fama eterna dal poema sacro al quale, come lui stesso dirà, hanno cooperato Cielo e Terra. Il solenne ammonimento di Cacciaguida assume dunque lo stesso valore della missione di Enea nelle parole di Anchise alla fine del libro VI dell'Eneide, quando affidava al figlio il compito di gettare le basi della stirpe romana destinata a dominare il mondo e ad assicurare pace e giustizia sotto l'Impero di Augusto: come il pius Aeneas nemmeno Dante si sottrarrà al suo dovere e farà davvero manifesta tutta la sua visione, mostrando casi clamorosi e inattesi di personaggi dannati all'Inferno (si pensi a Guido da Montefeltro, a Branca Doria che addirittura include fra i traditori degli ospiti di Cocito quand'era ancora vivo) e altrettanti esempi di salvezze imprevedibili in Purgatorio (Catone, Manfredi) e in Paradiso (Traiano, Rifeo), il cui scopo ultimo è affermare l'infallibilità della giustizia divina, anche al di là delle capacità di comprensione umana. L'episodio di Cacciaguida si colloca dunque al centro esatto della Cantica e del poema in ragione dell'alto valore morale di questa investitura, che è poi la spiegazione essenziale del successo della Commedia destinato a durare assai più della breve vita del suo autore: la differenza tra quest'opera e le scialbe descrizioni dell'Oltretomba di scrittori precedenti non è solo nella novità della rappresentazione, ma soprattutto nel coraggio della denuncia contro i mali religiosi, politici, sociali del mondo del suo tempo, che acquista tanto maggiore rilievo quando si pensi alle oggettive difficoltà di Dante bandito in esilio dalla sua città, costretto a elemosinare l'aiuto dei potenti, esposto alle possibili vendette dei suoi nemici vecchi e nuovi, e nonostante tutto privo di dubbi nel portare a termine quella che considerava una missione irrinunciabile. Ciò rende il Canto XVII del Paradiso uno dei momenti più alti e sentiti della poesia di Dante in assoluto e acquista un valore che va molto al di là della vicenda personale e biografica del poeta, il quale forse sottolinea i propri meriti come rivalsa nei confronti dei suoi ingrati concittadini, ma dimostra una coscienza morale e un coraggio non comuni al suo tempo come nel mondo presente.
Questa missione è poi solennemente dichiarata da Cacciaguida a Dante nella seconda parte del Canto, dopo che il poeta ha espresso i suoi dubbi che nascono proprio dalla profezia dell'esilio delineatasi finalmente con chiarezza: Dante sa che è chiamato dalla Provvidenza a rivelare tutto ciò che ha visto nel corso del viaggio, ma sa anche che i suoi versi riusciranno sgraditi a molti e quindi teme di precludersi possibili aiuti e protezioni se dirà tutta la verità, rischiando in caso contrario di scrivere un'opera di poco peso e, quindi, di non ottenere la fama imperitura. La risposta di Cacciaguida è tale da non lasciare incertezze ed è una chiara esortazione a non essere timido amico della verità, poiché proprio questo è il compito di Dante: nei tre luoghi dell'Oltretomba gli sono stati mostrati exempla di anime dannate o salve secondo il criterio della notorietà, poiché solo attraverso personaggi conosciuti il lettore ne sarà colpito al punto di modificare la sua condotta, dunque sarebbe una grave mancanza da parte di Dante omettere qualche particolare della «visione» o tacere i nomi di quei personaggi da cui potrebbe attendersi ostilità o ritorsioni. Il valore del poema è allora soprattutto quello di un'alta denuncia contro i mali dell'Italia del tempo, che sono legati all'assenza di una autorità centrale in grado di garantire le leggi, alla corruzione diffusa capillarmente nella Chiesa, più in generale all'avidità di guadagno che è dovuta alla diffusione del denaro: Dante non dovrà tirarsi indietro rispetto a tale compito e dovrà quindi riferire fedelmente tutto ciò che gli è stato mostrato, ovvero la condizione delle anime post mortem che secondo la finzione del poema (e in base a quanto Dante stesso afferma nell'Epistola XIII) gli viene fatta conoscere da vivo in virtù di un altissimo privilegio e in considerazione dei suoi meriti poetici. Il discorso di Cacciaguida è perciò stilisticamente solenne, ma non rinuncia talvolta ad espressioni crude e di immediata evidenza, come la frase lascia pur grattar dov'è la rogna che rende bene l'idea della missione affidata a Dante, quella cioè di dire la verità anche quando questa suonerà sgradevole alle orecchie dei potenti (in XXVII, 22-27 san Pietro userà parole ancor più dure contro Bonifacio VIII, colpevole di aver trasformato il Vaticano una cloaca / del sangue e de la puzza); del resto la voce del poeta sarà simile a un vento che colpirà maggiormente proprio le cime più alte, ovvero i personaggi più illustri del tempo che erano più di altri responsabili della decadenza morale e politica dell'Italia, per cui solo in tal modo Dante potrà legittimamente aspettarsi la fama eterna dal poema sacro al quale, come lui stesso dirà, hanno cooperato Cielo e Terra. Il solenne ammonimento di Cacciaguida assume dunque lo stesso valore della missione di Enea nelle parole di Anchise alla fine del libro VI dell'Eneide, quando affidava al figlio il compito di gettare le basi della stirpe romana destinata a dominare il mondo e ad assicurare pace e giustizia sotto l'Impero di Augusto: come il pius Aeneas nemmeno Dante si sottrarrà al suo dovere e farà davvero manifesta tutta la sua visione, mostrando casi clamorosi e inattesi di personaggi dannati all'Inferno (si pensi a Guido da Montefeltro, a Branca Doria che addirittura include fra i traditori degli ospiti di Cocito quand'era ancora vivo) e altrettanti esempi di salvezze imprevedibili in Purgatorio (Catone, Manfredi) e in Paradiso (Traiano, Rifeo), il cui scopo ultimo è affermare l'infallibilità della giustizia divina, anche al di là delle capacità di comprensione umana. L'episodio di Cacciaguida si colloca dunque al centro esatto della Cantica e del poema in ragione dell'alto valore morale di questa investitura, che è poi la spiegazione essenziale del successo della Commedia destinato a durare assai più della breve vita del suo autore: la differenza tra quest'opera e le scialbe descrizioni dell'Oltretomba di scrittori precedenti non è solo nella novità della rappresentazione, ma soprattutto nel coraggio della denuncia contro i mali religiosi, politici, sociali del mondo del suo tempo, che acquista tanto maggiore rilievo quando si pensi alle oggettive difficoltà di Dante bandito in esilio dalla sua città, costretto a elemosinare l'aiuto dei potenti, esposto alle possibili vendette dei suoi nemici vecchi e nuovi, e nonostante tutto privo di dubbi nel portare a termine quella che considerava una missione irrinunciabile. Ciò rende il Canto XVII del Paradiso uno dei momenti più alti e sentiti della poesia di Dante in assoluto e acquista un valore che va molto al di là della vicenda personale e biografica del poeta, il quale forse sottolinea i propri meriti come rivalsa nei confronti dei suoi ingrati concittadini, ma dimostra una coscienza morale e un coraggio non comuni al suo tempo come nel mondo presente.
Dante exul immeritus: il contrastato rapporto con Firenze
Il monumento a Dante davanti a Santa Croce
Sappiamo che in seguito all'esilio che gli impedì di rientrare a Firenze nel 1302 Dante fu costretto a lunghe peregrinazioni in giro per l'Italia del Nord, che lo portarono a contatto con una realtà politica ben più ampia di quella municipale che aveva vissuto sino a quel momento e ampliarono di molto la sua visione culturale: forse concepì la Commedia anche come un mezzo per affermare la sua grandezza a dispetto dell'esilio ingiustamente patito, quindi si può dire che grazie a quel destino Dante divenne il grande poeta oggi celebrato. Sicuramente egli visse il bando dalla sua città come una ferita mai rimarginata, sperando fino all'ultimo di potervi rientrare e, al tempo stesso, nutrendo un forte rancore per i suoi avversari politici che lo avevano esiliato: c'era anche l'accusa infamante (e pare del tutto infondata) di baratteria, cioè di corruzione in atti di governo, che portò alla condanna a morte del poeta e dei suoi figli nonché alla confisca di tutti i loro beni. Si può ben capire la triste condizione dello scrittore costretto a mettersi al servizio dei signori potenti, a provare come sa di sale / lo pane altrui e a umiliarsi, senza tuttavia mai derogare dalla sua altissima dirittura morale; prova ne sia il fatto che, nonostante la nostalgia della patria lontana e le oggettive difficoltà, Dante non rinunciò mai ad attaccare nelle sue opere le malefatte dei potenti del suo tempo, ai quali certamente la sua parola doveva sembrare brusca come profetizzato dall'avo Cacciaguida nel Canto XVII del Paradiso.
Il suo rapporto con Firenze fu sino alla fine di amore-odio, dal momento che in molti passi del poema Dante si scaglia con forza e sarcasmo contro i costumi politicamente e moralmente corrotti della sua città (cfr. soprattutto Inf., XXVI, 1-12, ma anche Purg., VI, 127-151), mentre in altri momenti sembra struggersi nel ricordo del luogo che lo ha visto nascere e in cui desidera tornare (cfr. Par., XXV, 1-12, dove Firenze diventa il bello ovile dove ha dormito agnello e fuori dal quale lo chiudono i lupi che fanno guerra alla città, i suoi avversari politici). A Firenze Dante avrebbe voluto rientrare soprattutto per prendere cappello, ovvero ottenere quell'incoronazione poetica cui legittimamente aspirava e che avrebbe potuto ricevere anche a Bologna nel 1320, se avesse accettato l'invito del professore di retorica Giovanni del Virgilio a recarsi in quella città; e a Firenze avrebbe potuto rientrare nel 1315, approfittando dell'amnistia che il governo dei Guelfi Neri concesse a tutti i fuorusciti, a condizioni però che Dante giudicò assolutamente inaccettabili. Si trattava di ammettere pubblicamente l'accusa di baratteria che gli veniva rivolta, pagare una multa e trascorrere una notte in carcere, cosa che gli avrebbe consentito di rientrare in possesso di parte dei suoi beni e porre fine alla sua vita girovaga, ma è fin troppo evidente che il poeta mai avrebbe sottostato a una simile imposizione: avrebbe significato venir meno alla sua coerenza morale, scendere a patti con coloro che lo avevano ingiustamente allontanato e soprattutto riconoscere una colpa che non aveva commesso, un prezzo davvero troppo alto da pagare per chi fino a quel momento si era distinto come cantor rectitudinis attraverso le pagine del poema che da anni circolava nelle città italiane. Il gran rifiuto di Dante acquista maggior rilievo se si pensa che, dopo la morte di Arrigo VII di Lussemburgo nel 1313, quella era davvero l'ultima opportunità per Dante di rimettere piede a Firenze: lui stesso ne era cosciente e la sua fermezza nel rinunciare a tale possibilità è la migliore testimonianza del suo rigore inflessibile, nonché della sua caparbietà nel tenere fede ai propri principi. Ne è una testimonianza l'Epistola XII a un amico fiorentino, forse un interlocutore reale che lo sollecitava a rientrare approfittando dell'amnistia e cui Dante risponde con cortesia riguardo all'intercessione e con sdegno nei confronti dei suoi oppositori politici: il passo è rimasto famoso e ha consegnato alle generazioni future l'immagine dell'altera e sdegnosa dignità del poeta, che nei documenti si definiva florentinus natione non moribus. Ecco le sue parole riguardo all'infamante condono di cui avrebbe potuto usufruire:
«È proprio questo il grazioso proscioglimento con cui è richiamato in patria Dante Alighieri, che per quasi tre lustri ha sofferto l'esilio? Questo ha meritato l'innocenza a tutti manifesta? questo ha meritato il sudore e l'assidua fatica nello studio? Sia lontana da un uomo, familiare con la filosofia, una così avvilente bassezza d'animo da sopportare di offrirsi come un carcerato al modo di un Ciolo e di altri infami! Sia lontano da un uomo che predica la giustizia, che dopo aver patito un ingiusto oltraggio, paghi il suo denaro a quelli stessi che l'hanno oltraggiato, come se lo meritassero! Non è questa, padre mio, la via del ritorno in patria; ma se un'altra via prima o poi da voi o da altri verrà trovata, che non deroghi alla fama e all'onore di Dante, l'accetterò a passi non lenti; ma se per nessuna onorevole via s'entra a Firenze, a Firenze non entrerò mai. E che? forse che non potrò vedere dovunque la luce del sole o degli astri? o forse che dovunque non potrò sotto il cielo indagare le dolcissime verità, senza prima restituirmi abietto e ignominioso al popolo e alla città di Firenze? E certamente non mi mancherà il pane.» (trad. di A. Torri, Livorno 1842).
Il 15 ottobre 1315 venne confermata la condanna a morte per Dante e i suoi figli, e come è noto il poeta sarebbe morto nel 1321 a Ravenna, dove è tuttora sepolto. La contrastata vicenda tra il poeta e la sua città non ebbe fine con la sua scomparsa: diversi tentativi vennero fatti negli anni a venire dai Fiorentini per traslare i suoi resti nella chiesa monumentale di Santa Croce, nessuno dei quali andò tuttavia a buon fine (neppure quello ad opera di papa Leone X nel primo Cinquecento, quando furono i Ravennati a opporsi). E forse è giusto che le spoglie del grande poeta, che non poté rientrare in vita nella sua città a condizioni giudicate onorevoli, restino tumulate lontano dalla sua Firenze, dove all'indomani della sua morte i suoi ingrati ex-concittadini erano fin troppo solleciti a volersene riappropriare, per ragioni non certamente legate all'ammirazione per la sua dignità.
Il suo rapporto con Firenze fu sino alla fine di amore-odio, dal momento che in molti passi del poema Dante si scaglia con forza e sarcasmo contro i costumi politicamente e moralmente corrotti della sua città (cfr. soprattutto Inf., XXVI, 1-12, ma anche Purg., VI, 127-151), mentre in altri momenti sembra struggersi nel ricordo del luogo che lo ha visto nascere e in cui desidera tornare (cfr. Par., XXV, 1-12, dove Firenze diventa il bello ovile dove ha dormito agnello e fuori dal quale lo chiudono i lupi che fanno guerra alla città, i suoi avversari politici). A Firenze Dante avrebbe voluto rientrare soprattutto per prendere cappello, ovvero ottenere quell'incoronazione poetica cui legittimamente aspirava e che avrebbe potuto ricevere anche a Bologna nel 1320, se avesse accettato l'invito del professore di retorica Giovanni del Virgilio a recarsi in quella città; e a Firenze avrebbe potuto rientrare nel 1315, approfittando dell'amnistia che il governo dei Guelfi Neri concesse a tutti i fuorusciti, a condizioni però che Dante giudicò assolutamente inaccettabili. Si trattava di ammettere pubblicamente l'accusa di baratteria che gli veniva rivolta, pagare una multa e trascorrere una notte in carcere, cosa che gli avrebbe consentito di rientrare in possesso di parte dei suoi beni e porre fine alla sua vita girovaga, ma è fin troppo evidente che il poeta mai avrebbe sottostato a una simile imposizione: avrebbe significato venir meno alla sua coerenza morale, scendere a patti con coloro che lo avevano ingiustamente allontanato e soprattutto riconoscere una colpa che non aveva commesso, un prezzo davvero troppo alto da pagare per chi fino a quel momento si era distinto come cantor rectitudinis attraverso le pagine del poema che da anni circolava nelle città italiane. Il gran rifiuto di Dante acquista maggior rilievo se si pensa che, dopo la morte di Arrigo VII di Lussemburgo nel 1313, quella era davvero l'ultima opportunità per Dante di rimettere piede a Firenze: lui stesso ne era cosciente e la sua fermezza nel rinunciare a tale possibilità è la migliore testimonianza del suo rigore inflessibile, nonché della sua caparbietà nel tenere fede ai propri principi. Ne è una testimonianza l'Epistola XII a un amico fiorentino, forse un interlocutore reale che lo sollecitava a rientrare approfittando dell'amnistia e cui Dante risponde con cortesia riguardo all'intercessione e con sdegno nei confronti dei suoi oppositori politici: il passo è rimasto famoso e ha consegnato alle generazioni future l'immagine dell'altera e sdegnosa dignità del poeta, che nei documenti si definiva florentinus natione non moribus. Ecco le sue parole riguardo all'infamante condono di cui avrebbe potuto usufruire:
«È proprio questo il grazioso proscioglimento con cui è richiamato in patria Dante Alighieri, che per quasi tre lustri ha sofferto l'esilio? Questo ha meritato l'innocenza a tutti manifesta? questo ha meritato il sudore e l'assidua fatica nello studio? Sia lontana da un uomo, familiare con la filosofia, una così avvilente bassezza d'animo da sopportare di offrirsi come un carcerato al modo di un Ciolo e di altri infami! Sia lontano da un uomo che predica la giustizia, che dopo aver patito un ingiusto oltraggio, paghi il suo denaro a quelli stessi che l'hanno oltraggiato, come se lo meritassero! Non è questa, padre mio, la via del ritorno in patria; ma se un'altra via prima o poi da voi o da altri verrà trovata, che non deroghi alla fama e all'onore di Dante, l'accetterò a passi non lenti; ma se per nessuna onorevole via s'entra a Firenze, a Firenze non entrerò mai. E che? forse che non potrò vedere dovunque la luce del sole o degli astri? o forse che dovunque non potrò sotto il cielo indagare le dolcissime verità, senza prima restituirmi abietto e ignominioso al popolo e alla città di Firenze? E certamente non mi mancherà il pane.» (trad. di A. Torri, Livorno 1842).
Il 15 ottobre 1315 venne confermata la condanna a morte per Dante e i suoi figli, e come è noto il poeta sarebbe morto nel 1321 a Ravenna, dove è tuttora sepolto. La contrastata vicenda tra il poeta e la sua città non ebbe fine con la sua scomparsa: diversi tentativi vennero fatti negli anni a venire dai Fiorentini per traslare i suoi resti nella chiesa monumentale di Santa Croce, nessuno dei quali andò tuttavia a buon fine (neppure quello ad opera di papa Leone X nel primo Cinquecento, quando furono i Ravennati a opporsi). E forse è giusto che le spoglie del grande poeta, che non poté rientrare in vita nella sua città a condizioni giudicate onorevoli, restino tumulate lontano dalla sua Firenze, dove all'indomani della sua morte i suoi ingrati ex-concittadini erano fin troppo solleciti a volersene riappropriare, per ragioni non certamente legate all'ammirazione per la sua dignità.
Note e passi controversi
I vv. 1-3 alludono al mito di Fetonte, figlio di Apollo e Climene (Ovidio, Met., I, 748 ss.; II, 1 ss.) che era stato deriso da Epafo il quale non credeva che il dio del Sole fosse realmente suo padre e si era rivolto alla madre per avere rassicurazioni: in seguito Apollo, per confermare la versione di Climene, gli permise di guidare il carro del Sole, ma Fetonte deviò dal retto cammino e venne fulminato da Giove (per questo il giovane è esempio di come i padri debbano essere scarsi, non condiscendenti coi figli).
Al v. 13 piota vuol dire «pianta del piede», quindi per estensione «radice». Il vb. t'insusi è neologismo dantesco.
Al v. 31 ambage è latinismo per «tortuosità», «espressioni oscure» e allude ai responsi oracolari dei pagani (la gente folle) che spesso erano ambigui; preciso / latin (vv. 34-35) vuol dire «discorso chiaro» e non necessariamente che il beato parli latino come qualcuno ha supposto (cfr. il discreto latino di XII, 144).
Alcuni mss. al v. 42 leggono corrente, che però è lectio facilior.
I vv. 46-48 alludono al mito di Ippolito, il figlio di Teseo, che respinse le profferte amorose della matrigna Fedra e fu da lei accusato di fronte al padre; questi credette alla moglie e cacciò ingiustamente il figlio da Atene (Ovidio, Met., XV, 493 ss.). Alcuni interpreti pensano che Dante paragoni Firenze a Fedra, indicandola cioè come città «matrigna».
I vv. 49-51 alludono certamente a Bonifacio VIII, intento a compiere simonia nella Curia di Roma (là dove Cristo tutto dì si merca) e a complottare per favorire la presa del potere dei Neri a Firenze. Non è necessario pensare che Dante intenda attribuire al papa la volontà di esiliare lui personalmente, anche se un riferimento in tal senso non si può escludere.
I vv. 53-54, non chiarissimi, intendono dire che presto Firenze verrà punita da Dio e ciò ristabilirà la verità, dimostrando cioè la falsità delle accuse rivolte a Dante (prob. ciò si riferisce all'accusa di baratteria).
I vv. 61-66 si riferiscono agli altri fuorusciti fiorentini a cui Dante in un primo tempo si era unito, anche se non è chiaro a cosa egli alluda dicendo che questa compagnia... era diventata tutta ingrata, tutta matta ed empia contro di lui. Probabile che fossero sorti contrasti circa il modo di rientrare a Firenze, per cui Dante si era staccato da loro e non aveva preso parte alla battaglia della Lastra in cui erano stati sconfitti, con le tempie rosse di sangue e vergogna.
Il gran Lombardo citato al v. 71 è quasi certamente Bartolomeo Della Scala, figlio di Alberto I (morto nel 1301, prima dell'esilio di Dante) e fratello maggiore di Cangrande, nato nel 1291; egli resse Verona dal 1301 al 1304, quindi Dante sarebbe stato da lui nei primissimi anni dell'esilio. Del successore, Alboino, il poeta dà un giudizio severo in Conv., IV, 16 e quindi è poco probabile che si tratti di quest'ultimo.
Al v. 72 il santo uccello è l'aquila imperiale, che lo stemma degli Scaligeri recava sul simbolo della scala; essi divennero vicari imperiali nel 1311, ma non è inverosimile che l'aquila fosse già presente prima.
I vv. 76 ss. alludono senza nominarlo a Cangrande, nato nel 1291 e quindi di appena nove anni al momento del colloquio con Cacciaguida: il beato ne predice le grandi imprese, che si vedranno prima che Clemente V (il Guasco) inganni Arrigo VII di Lussemburgo (l'alto Arrigo), ovvero prima del 1312 quando il papa si rivoltò contro l'imperatore al quale aveva dapprima accordato il favore.
I vv. 91-93 contengono una profezia delle imprese di Cangrande, che però Dante non dovrà riferire: identico espediente in IX, 1-6 quando Carlo Martello predice il castigo nei confronti di chi aveva ingannato i suoi figli, cioè prob. il fratello Roberto.
Al v. 97 i vicini sono i «concittadini» di Dante.
Al v. 122 corusca è latinismo e vuol dire «splendente».
Al v. 13 piota vuol dire «pianta del piede», quindi per estensione «radice». Il vb. t'insusi è neologismo dantesco.
Al v. 31 ambage è latinismo per «tortuosità», «espressioni oscure» e allude ai responsi oracolari dei pagani (la gente folle) che spesso erano ambigui; preciso / latin (vv. 34-35) vuol dire «discorso chiaro» e non necessariamente che il beato parli latino come qualcuno ha supposto (cfr. il discreto latino di XII, 144).
Alcuni mss. al v. 42 leggono corrente, che però è lectio facilior.
I vv. 46-48 alludono al mito di Ippolito, il figlio di Teseo, che respinse le profferte amorose della matrigna Fedra e fu da lei accusato di fronte al padre; questi credette alla moglie e cacciò ingiustamente il figlio da Atene (Ovidio, Met., XV, 493 ss.). Alcuni interpreti pensano che Dante paragoni Firenze a Fedra, indicandola cioè come città «matrigna».
I vv. 49-51 alludono certamente a Bonifacio VIII, intento a compiere simonia nella Curia di Roma (là dove Cristo tutto dì si merca) e a complottare per favorire la presa del potere dei Neri a Firenze. Non è necessario pensare che Dante intenda attribuire al papa la volontà di esiliare lui personalmente, anche se un riferimento in tal senso non si può escludere.
I vv. 53-54, non chiarissimi, intendono dire che presto Firenze verrà punita da Dio e ciò ristabilirà la verità, dimostrando cioè la falsità delle accuse rivolte a Dante (prob. ciò si riferisce all'accusa di baratteria).
I vv. 61-66 si riferiscono agli altri fuorusciti fiorentini a cui Dante in un primo tempo si era unito, anche se non è chiaro a cosa egli alluda dicendo che questa compagnia... era diventata tutta ingrata, tutta matta ed empia contro di lui. Probabile che fossero sorti contrasti circa il modo di rientrare a Firenze, per cui Dante si era staccato da loro e non aveva preso parte alla battaglia della Lastra in cui erano stati sconfitti, con le tempie rosse di sangue e vergogna.
Il gran Lombardo citato al v. 71 è quasi certamente Bartolomeo Della Scala, figlio di Alberto I (morto nel 1301, prima dell'esilio di Dante) e fratello maggiore di Cangrande, nato nel 1291; egli resse Verona dal 1301 al 1304, quindi Dante sarebbe stato da lui nei primissimi anni dell'esilio. Del successore, Alboino, il poeta dà un giudizio severo in Conv., IV, 16 e quindi è poco probabile che si tratti di quest'ultimo.
Al v. 72 il santo uccello è l'aquila imperiale, che lo stemma degli Scaligeri recava sul simbolo della scala; essi divennero vicari imperiali nel 1311, ma non è inverosimile che l'aquila fosse già presente prima.
I vv. 76 ss. alludono senza nominarlo a Cangrande, nato nel 1291 e quindi di appena nove anni al momento del colloquio con Cacciaguida: il beato ne predice le grandi imprese, che si vedranno prima che Clemente V (il Guasco) inganni Arrigo VII di Lussemburgo (l'alto Arrigo), ovvero prima del 1312 quando il papa si rivoltò contro l'imperatore al quale aveva dapprima accordato il favore.
I vv. 91-93 contengono una profezia delle imprese di Cangrande, che però Dante non dovrà riferire: identico espediente in IX, 1-6 quando Carlo Martello predice il castigo nei confronti di chi aveva ingannato i suoi figli, cioè prob. il fratello Roberto.
Al v. 97 i vicini sono i «concittadini» di Dante.
Al v. 122 corusca è latinismo e vuol dire «splendente».
TestoQual venne a
Climené, per accertarsi
di ciò ch’avea incontro a sé udito, quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi; 3 tal era io, e tal era sentito e da Beatrice e da la santa lampa che pria per me avea mutato sito. 6 Per che mia donna «Manda fuor la vampa del tuo disio», mi disse, «sì ch’ella esca segnata bene de la interna stampa; 9 non perché nostra conoscenza cresca per tuo parlare, ma perché t’ausi a dir la sete, sì che l’uom ti mesca». 12 «O cara piota mia che sì t’insusi, che, come veggion le terrene menti non capere in triangol due ottusi, 15 così vedi le cose contingenti anzi che sieno in sé, mirando il punto a cui tutti li tempi son presenti; 18 mentre ch’io era a Virgilio congiunto su per lo monte che l’anime cura e discendendo nel mondo defunto, 21 dette mi fuor di mia vita futura parole gravi, avvegna ch’io mi senta ben tetragono ai colpi di ventura; 24 per che la voglia mia saria contenta d’intender qual fortuna mi s’appressa; ché saetta previsa vien più lenta». 27 Così diss’io a quella luce stessa che pria m’avea parlato; e come volle Beatrice, fu la mia voglia confessa. 30 Né per ambage, in che la gente folle già s’inviscava pria che fosse anciso l’Agnel di Dio che le peccata tolle, 33 ma per chiare parole e con preciso latin rispuose quello amor paterno, chiuso e parvente del suo proprio riso: 36 «La contingenza, che fuor del quaderno de la vostra matera non si stende, tutta è dipinta nel cospetto etterno: 39 necessità però quindi non prende se non come dal viso in che si specchia nave che per torrente giù discende. 42 Da indi, sì come viene ad orecchia dolce armonia da organo, mi viene a vista il tempo che ti s’apparecchia. 45 Qual si partio Ipolito d’Atene per la spietata e perfida noverca, tal di Fiorenza partir ti convene. 48 Questo si vuole e questo già si cerca, e tosto verrà fatto a chi ciò pensa là dove Cristo tutto dì si merca. 51 La colpa seguirà la parte offensa in grido, come suol; ma la vendetta fia testimonio al ver che la dispensa. 54 Tu lascerai ogne cosa diletta più caramente; e questo è quello strale che l’arco de lo essilio pria saetta. 57 Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale. 60 E quel che più ti graverà le spalle, sarà la compagnia malvagia e scempia con la qual tu cadrai in questa valle; 63 che tutta ingrata, tutta matta ed empia si farà contr’a te; ma, poco appresso, ella, non tu, n’avrà rossa la tempia. 66 Di sua bestialitate il suo processo farà la prova; sì ch’a te fia bello averti fatta parte per te stesso. 69 Lo primo tuo refugio e ‘l primo ostello sarà la cortesia del gran Lombardo che ‘n su la scala porta il santo uccello; 72 ch’in te avrà sì benigno riguardo, che del fare e del chieder, tra voi due, fia primo quel che tra li altri è più tardo. 75 Con lui vedrai colui che ‘mpresso fue, nascendo, sì da questa stella forte, che notabili fier l’opere sue. 78 Non se ne son le genti ancora accorte per la novella età, ché pur nove anni son queste rote intorno di lui torte; 81 ma pria che ‘l Guasco l’alto Arrigo inganni, parran faville de la sua virtute in non curar d’argento né d’affanni. 84 Le sue magnificenze conosciute saranno ancora, sì che ‘ suoi nemici non ne potran tener le lingue mute. 87 A lui t’aspetta e a’ suoi benefici; per lui fia trasmutata molta gente, cambiando condizion ricchi e mendici; 90 e portera’ne scritto ne la mente di lui, e nol dirai»; e disse cose incredibili a quei che fier presente. 93 Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose di quel che ti fu detto; ecco le ‘nsidie che dietro a pochi giri son nascose. 96 Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie, poscia che s’infutura la tua vita vie più là che ‘l punir di lor perfidie». 99 Poi che, tacendo, si mostrò spedita l’anima santa di metter la trama in quella tela ch’io le porsi ordita, 102 io cominciai, come colui che brama, dubitando, consiglio da persona che vede e vuol dirittamente e ama: 105 «Ben veggio, padre mio, sì come sprona lo tempo verso me, per colpo darmi tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona; 108 per che di provedenza è buon ch’io m’armi, sì che, se loco m’è tolto più caro, io non perdessi li altri per miei carmi. 111 Giù per lo mondo sanza fine amaro, e per lo monte del cui bel cacume li occhi de la mia donna mi levaro, 114 e poscia per lo ciel, di lume in lume, ho io appreso quel che s’io ridico, a molti fia sapor di forte agrume; 117 e s’io al vero son timido amico, temo di perder viver tra coloro che questo tempo chiameranno antico». 120 La luce in che rideva il mio tesoro ch’io trovai lì, si fé prima corusca, quale a raggio di sole specchio d’oro; 123 indi rispuose: «Coscienza fusca o de la propria o de l’altrui vergogna pur sentirà la tua parola brusca. 126 Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, tutta tua vision fa manifesta; e lascia pur grattar dov’è la rogna. 129 Ché se la voce tua sarà molesta nel primo gusto, vital nodrimento lascerà poi, quando sarà digesta. 132 Questo tuo grido farà come vento, che le più alte cime più percuote; e ciò non fa d’onor poco argomento. 135 Però ti son mostrate in queste rote, nel monte e ne la valle dolorosa pur l’anime che son di fama note, 138 che l’animo di quel ch’ode, non posa né ferma fede per essempro ch’aia la sua radice incognita e ascosa, né per altro argomento che non paia». 142 |
ParafrasiCome colui (Fetonte) che ancora oggi induce i padri a non essere condiscendenti, andò dalla madre Climene per avere rassicurazioni su quanto aveva udito contro di sé, così ero io, e così ero percepito sia da Beatrice sia dalla santa luce (Cacciaguida) che prima aveva cambiato posizione per me.
Perciò la mia donna mi disse: «Manifesta il tuo desiderio, così che esso sia espresso secondo i tuoi pensieri; non perché noi abbiamo bisogno delle tue parole per conoscerlo, ma affinché tu ti abitui a manifestare i tuoi desideri, in modo che essi siano esauditi». «O caro mio capostipite, che ti innalzi a tal punto che, come le menti terrene vedono che in un triangolo non possono esserci due angoli ottusi, così vedi le cose contingenti prima che avvengano, osservando il punto (la mente di Dio) in cui è un eterno presente; mentre io ero guidato da Virgilio, salendo lungo il monte che purifica le anime (il Purgatorio) e scendendo nel mondo dei morti (nell'Inferno), mi furono dette parole gravi sulla mia vita futura (l'esilio), anche se io mi sento ben preparato a reggere i colpi della sventura; dunque desidero sapere quale destino mi attende; infatti, una freccia prevista arriva più lentamente». Così io dissi a quella stessa luce che prima mi aveva parlato; e il mio desiderio fu espresso, proprio come volle Beatrice. Quel padre amorevole mi rispose non con parole tortuose, in cui i pagani si invischiavano ben prima che fosse crocifisso l'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo (Cristo), ma con parole chiare e con un discorso limpido, avvolto e splendente nella luce del suo sorriso: «Gli eventi contingenti, che non si estendono al di fuori del vostro mondo terreno, sono tutti dipinti nella mente di Dio: essi però non sono per questo necessari, come non lo è il fatto che una barca scenda la corrente solo perché qualcuno la osserva. Da lì (dalla mente divina) viene a me il tempo che si prepara per te, come la dolce armonia di un organo viene all'orecchio. TI sarà inevitabile lasciare Firenze, come Ippolito lasciò Atene a causa della spietata e perfida matrigna (Fedra). Si vuole questo e si cerca di attuarlo, e verrà presto compiuto, da chi (Bonifacio VIII) pensa a ciò là (nella Curia papale) dove si mercifica Cristo (le cose sacre) ogni giorno. La colpa verrà addossata alla parte sconfitta attraverso la fama, come di solito accade; ma la prossima punizione di Dio renderà evidente a tutti la verità, dispensata da Dio secondo giustizia. Tu lascerai ogni cosa che ami di più; e questa è la pena che l'esilio fa provare per prima. Tu proverai come è amaro il pane altrui, e come è duro salire e scendere le scale altrui (accettare l'aiuto dei potenti). E ciò che ti sarà più fastidioso sarà la compagnia malvagia e folle con cui dovrai condividere l'esilio (gli altri fuorusciti); infatti essa diventerà tutta ingrata, stupida e ingiusta contro di te; ma, poco dopo, saranno loro e non tu ad avere le tempie rosse (di sangue e vergogna). Quello che accadrà loro dimostrerà la loro follia; cosicché sarà stato un bene, per te, essertene separato. Il tuo primo rifugio e la tua prima dimora sarà la cortesia del gran Lombardo (Bartolomeo Della Scala) che sulla scala del suo stemma porta l'uccello sacro (l'aquila imperiale); egli avrà così benevolo riguardo nei tuoi confronti, che tra voi due i favori precederanno le richieste, contrariamente a quanto accade. Insieme a lui conoscerai quello (Cangrande) che, alla nascita, fu influenzato a tal punto da questo pianeta (Marte) che le sue imprese saranno straordinarie. Le persone non se ne sono ancora accorte per la sua giovane età, perché questi Cieli hanno ruotato intorno a lui solo nove anni; ma prima che il Guasco (papa Clemente V) inganni l'alto Arrigo VII di Lussemburgo, egli mostrerà scintille del suo valore nella noncuranza di denaro e affanni. Le sue gesta saranno conosciute da tutti, al punto che i suoi nemici non potranno negarle. Affidati a lui e ai suoi benefici; grazie a lui molta gente cambierà condizione, sia mendicanti sia ricchi; e porterai scritto nella memoria queste cose sul suo conto, che non dovrai riferire»; e disse cose che saranno incredibili anche a chi le vedrà di persona. Poi aggiunse: «Figlio, queste sono le spiegazioni di ciò che ti fu detto; ecco le insidie che ti attendono nel giro di pochi anni. Non voglio però che tu serbi rancore ai tuoi concittadini, poiché la tua vita è destinata a durare assai oltre la punizione che attende la loro perfidia» . Dopo che, tacendo, l'anima santa mostrò di aver completato la trama in quella tela di cui le porsi l'ordito (dopo aver risposto alla mia domanda), io cominciai, come colui che ha un dubbio e desidera un consiglio da una persona che vede, vuole e ama secondo giustizia: «Io vedo bene, padre mio, che il tempo avanza velocemente verso di me per darmi un colpo tale, che è tanto più grave quanto più uno si abbandoni ad esso; dunque è necessario che io mi armi di buona prudenza, così che, se sarò allontanato dal luogo a me più caro (Firenze), io non perda gli altri a causa dei miei versi. Giù nel mondo infinitamente amaro (Inferno), e lungo il monte dalla cui bella cima gli occhi della mia donna mi sollevarono (Purgatorio), e in seguito in Paradiso, di Cielo in Cielo, ho appreso cose che, se le riferirò, avranno per molti un sapore sgradevole; e se io sarò timido amico della verità (se ometterò dei particolari), temo di non avere la possibilità di vivere tra coloro che definiranno antico questo tempo (tra i posteri)». La luce in cui brillava il mio tesoro (Cacciaguida) che io trovai lì, dapprima si fece splendente, come uno specchio d'oro colpito dal sole; poi rispose: «Una coscienza sporca per la colpa propria o di altri sentirà certo le tue parole come sgradevoli. Tuttavia, rimossa ogni menzogna, rendi manifesto tutto ciò che hai visto, e lascia pure che chi ha la rogna si gratti (che chi ha colpa ne paghi le conseguenze). Infatti la tua voce, se sarà spiacevole al primo assaggio, poi quando sarà assimilata lascerà un nutrimento vitale. Questo tuo grido sarà come un vento che colpisce di più le cime più alte, e ciò non è motivo di poco onore. Perciò in questi Cieli, in Purgatorio e nella dolorosa valle dell'Inferno ti sono mostrate solo le anime che sono molto famose, poiché l'animo di colui che ascolta non dà retta e non presta fede a un esempio che abbia la sua radice nascosta e sconosciuta (a esempi non noti), né a un altro argomento che non sia di tutta evidenza». |