Inferno, Canto IX
G. Stradano, I demoni di Dite (1587)
"Vegna Medusa: sì 'l farem di smalto",
dicevan tutte riguardando in giuso;
"mal non vengiammo in Teseo l'assalto"...
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta e con una verghetta
l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno...
E io: "Maestro, quai son quelle genti
che, seppellite dentro da quell'arche,
si fan sentir coi sospiri dolenti?" ...
dicevan tutte riguardando in giuso;
"mal non vengiammo in Teseo l'assalto"...
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta e con una verghetta
l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno...
E io: "Maestro, quai son quelle genti
che, seppellite dentro da quell'arche,
si fan sentir coi sospiri dolenti?" ...
Argomento del Canto
Dubbi di Dante e spiegazioni di Virgilio. Apparizione delle tre Furie, che invocano Medusa. Arrivo del messo celeste, che piega le resistenze dei demoni e permette il passaggio dei due poeti. Ingresso nella città di Dite (VI Cerchio). Pena degli eresiarchi.
È la notte di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.
È la notte di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.
I dubbi di Dante (1-33)
La paura mostrata da Dante alla fine del Canto precedente induce Virgilio a nascondere la sua preoccupazione, mentre egli tende l'orecchio in attesa dell'arrivo del messo celeste. Il poeta latino pronuncia alcune parole di dubbio, che subito dopo corregge per non accrescere il timore del discepolo. A questo punto Dante chiede al maestro se mai un'anima del Limbo sia discesa fino al basso Inferno e Virgilio risponde che, benché ciò accada raramente, è già successo a lui poco dopo la sua morte quando la maga Eritone lo aveva evocato per trarre fuori dalla Giudecca l'anima di un traditore. Virgilio rassicura quindi Dante del fatto che conosce bene il cammino, spiegandogli che la palude Stigia circonda completamente la città di Dite e li costringe perciò ad entrare nelle sue mura per superarla.
Apparizione delle tre Furie (34-66)
Caravaggio, Testa di Medusa
Virgilio aggiunge altre parole che però Dante non ascolta, poiché il suo sguardo è attirato sulla cima delle mura dall'apparizione delle tre Furie infernali, sporche di sangue e coi capelli serpentini. Virgilio le riconosce subito e spiega a Dante che quella a sinistra è Megera, quella a destra è Aletto e Tesifone è al centro. Esse si squarciano il petto con le unghie, si percuotono a palme aperte e gridano così forte da indurre Dante a stringersi a Virgilio. Tutte invocano l'arrivo di Medusa per pietrificare Dante, quindi Virgilio lo esorta a voltarsi e a chiudersi gli occhi con le mani per non vedere la Gorgone. Dante obbedisce e Virgilio, non contento di ciò, mette le sue mani su quelle di Dante per non impedirgli di guardare.
Arrivo del messo celeste (67-105)
G. Doré, Il messo celeste
Dante a questo punto ammonisce i lettori con l'intelletto sano che dovranno ben interpretare l'allegoria che si cela sotto i suoi versi strani. Infatti si sente un gran frastuono proveniente dalla palude, che fa tremare entrambe le sponde ed è simile a un vento impetuoso che abbatte le foreste. Virgilio consente a Dante di aprire gli occhi e gli dice di guardare verso il fumo della palude, dove si vede il messo celeste avanzare senza toccare l'acqua. La creatura celeste avanza scacciando con la mano dal viso il vapore del pantano, mentre al suo cospetto le anime degli iracondi si dileguano. Virgilio fa cenno a Dante di inchinarsi di fronte a lui, che sembra pieno di disdegno verso quel luogo.
Il messo giunge alla porta della città di Dite e, dopo averla aperta con un bastoncino, inizia a rimproverare aspramente i diavoli. Biasima la loro tracotanza, il fatto che si oppongono vanamente al passaggio dei due poeti e ricorda che già Cerbero si era rifiutato di far entrare all'Inferno Ercole, fatto per cui ha ancora il mento e il gozzo spellati. A questo punto il messo torna da dove è venuto, senza rivolgere parola ai due poeti i quali si avvicinano senza ostacoli alle mura di Dite.
Il messo giunge alla porta della città di Dite e, dopo averla aperta con un bastoncino, inizia a rimproverare aspramente i diavoli. Biasima la loro tracotanza, il fatto che si oppongono vanamente al passaggio dei due poeti e ricorda che già Cerbero si era rifiutato di far entrare all'Inferno Ercole, fatto per cui ha ancora il mento e il gozzo spellati. A questo punto il messo torna da dove è venuto, senza rivolgere parola ai due poeti i quali si avvicinano senza ostacoli alle mura di Dite.
Ingresso nella città di Dite (106-133)
Dante e Virgilio entrano nella città senza alcuna opposizione e a questo punto Dante, desideroso di vedere la condizione dei dannati, volge intorno lo sguardo scorgendo ovunque delle tombe simili a quelle dei cimiteri di Arles e di Pola. Le tombe sono infuocate e hanno i coperchi sollevati, mentre dai sepolcri escono lamenti miserevoli. Dante chiede spiegazioni a Virgilio e il maestro spiega che dentro ci sono le anime degli eresiarchi e dei loro seguaci di ogni setta, condannati a bruciare in misura maggiore o minore a seconda della gravità dell'eresia che hanno seguito in vita. Virgilio si dirige a destra e Dante lo segue tra le tombe e gli spalti della città.
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Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto del Canto, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
Interpretazione complessiva
Il Canto è la necessaria conclusione di quello precedente, che si era chiuso nell'attesa dell'arrivo del messo celeste preannunciato da Virgilio per rassicurare Dante e destinato a vincere l'opposizione dei diavoli della città di Dite, decisi a non permettere l'ingresso di Dante ancor vivo nella città del foco. La stessa atmosfera di attesa e inquietudine apre il Canto IX, che mostra da un lato i dubbi di Virgilio (la guida si sforza di non inquietare Dante, anche se le sue parole lasciano trasparire dubbi) e dall'altro i timori del discepolo, che addirittura chiede al maestro se lui conosce la strada che conduce al Basso Inferno, mettendo implicitamente in forse la sua autorità finora indiscussa. Virgilio spiega che poco dopo la sua morte la maga tèssala Eritone lo aveva evocato per far ritornare sulla Terra un morto, quindi egli conosce perfettamente la strada che conduce al fondo dell'Inferno, anche se è assai raro che un'anima compia tale percorso partendo dal Limbo (Dante si ispira sicuramente a un episodio del Bellum civile di Lucano, VI, 508 ss., in cui si dice che Eritone aveva resuscitato un defunto per rivelare a Pompeo l'esito della battaglia di Farsàlo; non sappiamo a quale altro caso riguardante Virgilio faccia riferimento qui Dante). Va comunque detto che la conoscenza dei luoghi infernali da parte di Virgilio è limitata dal fatto che la sua prima discesa avvenne prima della venuta di Cristo, per cui egli ignora ad esempio che alcuni ponti rocciosi delle Malebolge sono crollati per il terremoto seguito alla morte di Gesù e ciò causerà l'inganno che sarà perpetrato ai suoi danni dai Malebranche; del tutto inesperto sarà invece del Purgatorio, dove sarà addirittura costretto a chiedere più volte ai penitenti qual è la via più rapida per l'ascesa.
L'atmosfera arcana e di sortilegio prosegue con l'apparizione improvvisa delle tre Furie, che distolgono Dante dal discorso di Virgilio e attirano la sua attenzione: le creature demoniache si affacciano dagli spalti di Dite e minacciano Dante evocando Medusa, la terribile Gorgone che ha il potere di pietrificare chi la guarda in volto. La minaccia è reale e spinge Virgilio a chiudere gli occhi al discepolo, altrimenti nulla sarebbe di tornar mai suso (il maestro non si accontenta che Dante si copra gli occhi, ma mette le sue mani su quelle del poeta per evitare ogni rischio). Le Furie e Medusa sono la consueta demonizzazione di divinità classiche del mondo infero, che anche in questo caso si oppongono vanamente al prosieguo del cammino di Dante, anche se la Gorgone non viene mostrata direttamente ma solo evocata dalle minacciose parole delle tre Erinni, che citano la discesa all'Averno di Teseo e si rammaricano di non averne respinto l'assalto: l'eroe classico è da accostare ad Ercole, citato più avanti nel discorso del messo celeste, e forse entrambi rimandano alla figura di questo inviato che ridurrà al silenzio i demoni, secondo lo schema dell'eroe che sconfigge il mostro e che è comune tanto alla mitologia quanto al racconto biblico (si pensi, ad esempio, a David e Golia).
La parte centrale del Canto è poi occupata proprio dall'arrivo del messo celeste, preceduto dall'ammonimento di Dante ai lettori che dovranno, se hanno gli 'ntelletti sani, osservare bene la dottrina che s'asconde / sotto 'l velame de li versi strani. Non sarà l'ultima volta che il poeta rivolgerà simili richiami al suo pubblico, né è molto chiaro a cosa intenda riferirsi in questo caso: tralasciando le ipotesi più fantasiose, è probabile che Dante inviti i lettori a cogliere il senso della «sacra rappresentazione» che ha per protagonista il messo, ovvero la necessità dell'aiuto e del soccorso della Grazia divina per superare gli ostacoli del peccato, senza la quale la sola ragione è di per sé insufficiente. L'aiuto di Dio è necessario perché Dante vinca i suoi dubbi e la sua viltà, come già era accaduto nella selva per mezzo di Virgilio, e superi l'opposizione dei demoni che è del resto vana in quanto il suo viaggio non è folle ma voluto dal Cielo, come il messo non manca di ricordare ai diavoli nei suoi rimproveri. Quasi impossibile, poi, identificare con certezza il messo, che molti commentatori hanno indicato in un angelo (uno degli arcangeli, Gabriele o Michele?), altri in un personaggio pagano (Mercurio?), altri ancora in un contemporaneo di Dante. Quel che è certo è che il suo compito è vincere la ribellione dei demoni al volere divino, come Michele che sconfisse Lucifero o come vari eroi mitologici che uccisero creature mostruose; il messo ricorda l'episodio di Ercole che per entrare agli Inferi aveva trascinato fuori Cerbero con una catena, mentre Medusa, evocata dalle Furie, era stata uccisa da Perseo con l'aiuto di Minerva. La città di Dite rappresenta inoltre il confine tra l'Alto e il Basso Inferno dove sono puniti i peccati più gravi (quelli di violenza e frode), per cui il passaggio di Dante riveste probabilmente una particolare delicatezza che rende necessario un intervento superiore, il cui significato preciso probabilmente ci sfugge; quel che è certo è che dopo l'intervento del messo le porte della città infernale si aprono e l'ingresso dei due poeti può avvenire senz'alcuna guerra, mentre ogni presenza demoniaca all'interno scompare e Dante sarà libero di visitare il VI Cerchio in cui sono puniti gli eresiarchi e tutti i loro seguaci.
Gli eretici sono costretti a giacere in tombe infuocate con i coperchi sollevati, contrappasso che sarà spiegato nel Canto seguente dicendo che fra essi ci sono gli epicurei, che avevano proclamato la mortalità dell'anima; particolarmente interessato a questa categoria di dannati si mostra subito Dante, soprattutto perché sa (o intuisce) che fra loro si trova il concittadino Farinata Degli Uberti, la cui perdizione gli è stata preannunciata da Ciacco, e forse per l'interesse ai temi filosofici manifestato negli anni del suo «traviamento» e che aveva trovato espressione nel Convivio. Virgilio gli spiega che in ogni tomba sono costretti i seguaci di una stessa setta eretica, tormentati in misura maggiore o minore dal fuoco a seconda della gravità del peccato commesso: anche questo Canto si chiude prima che l'episodio abbia termine e rimanda l'attenzione a quello successivo, in cui avverrà l'incontro con Farinata che, forse, il lettore del poema si attendeva di trovare qui non meno di quanto se lo aspettasse Dante personaggio.
L'atmosfera arcana e di sortilegio prosegue con l'apparizione improvvisa delle tre Furie, che distolgono Dante dal discorso di Virgilio e attirano la sua attenzione: le creature demoniache si affacciano dagli spalti di Dite e minacciano Dante evocando Medusa, la terribile Gorgone che ha il potere di pietrificare chi la guarda in volto. La minaccia è reale e spinge Virgilio a chiudere gli occhi al discepolo, altrimenti nulla sarebbe di tornar mai suso (il maestro non si accontenta che Dante si copra gli occhi, ma mette le sue mani su quelle del poeta per evitare ogni rischio). Le Furie e Medusa sono la consueta demonizzazione di divinità classiche del mondo infero, che anche in questo caso si oppongono vanamente al prosieguo del cammino di Dante, anche se la Gorgone non viene mostrata direttamente ma solo evocata dalle minacciose parole delle tre Erinni, che citano la discesa all'Averno di Teseo e si rammaricano di non averne respinto l'assalto: l'eroe classico è da accostare ad Ercole, citato più avanti nel discorso del messo celeste, e forse entrambi rimandano alla figura di questo inviato che ridurrà al silenzio i demoni, secondo lo schema dell'eroe che sconfigge il mostro e che è comune tanto alla mitologia quanto al racconto biblico (si pensi, ad esempio, a David e Golia).
La parte centrale del Canto è poi occupata proprio dall'arrivo del messo celeste, preceduto dall'ammonimento di Dante ai lettori che dovranno, se hanno gli 'ntelletti sani, osservare bene la dottrina che s'asconde / sotto 'l velame de li versi strani. Non sarà l'ultima volta che il poeta rivolgerà simili richiami al suo pubblico, né è molto chiaro a cosa intenda riferirsi in questo caso: tralasciando le ipotesi più fantasiose, è probabile che Dante inviti i lettori a cogliere il senso della «sacra rappresentazione» che ha per protagonista il messo, ovvero la necessità dell'aiuto e del soccorso della Grazia divina per superare gli ostacoli del peccato, senza la quale la sola ragione è di per sé insufficiente. L'aiuto di Dio è necessario perché Dante vinca i suoi dubbi e la sua viltà, come già era accaduto nella selva per mezzo di Virgilio, e superi l'opposizione dei demoni che è del resto vana in quanto il suo viaggio non è folle ma voluto dal Cielo, come il messo non manca di ricordare ai diavoli nei suoi rimproveri. Quasi impossibile, poi, identificare con certezza il messo, che molti commentatori hanno indicato in un angelo (uno degli arcangeli, Gabriele o Michele?), altri in un personaggio pagano (Mercurio?), altri ancora in un contemporaneo di Dante. Quel che è certo è che il suo compito è vincere la ribellione dei demoni al volere divino, come Michele che sconfisse Lucifero o come vari eroi mitologici che uccisero creature mostruose; il messo ricorda l'episodio di Ercole che per entrare agli Inferi aveva trascinato fuori Cerbero con una catena, mentre Medusa, evocata dalle Furie, era stata uccisa da Perseo con l'aiuto di Minerva. La città di Dite rappresenta inoltre il confine tra l'Alto e il Basso Inferno dove sono puniti i peccati più gravi (quelli di violenza e frode), per cui il passaggio di Dante riveste probabilmente una particolare delicatezza che rende necessario un intervento superiore, il cui significato preciso probabilmente ci sfugge; quel che è certo è che dopo l'intervento del messo le porte della città infernale si aprono e l'ingresso dei due poeti può avvenire senz'alcuna guerra, mentre ogni presenza demoniaca all'interno scompare e Dante sarà libero di visitare il VI Cerchio in cui sono puniti gli eresiarchi e tutti i loro seguaci.
Gli eretici sono costretti a giacere in tombe infuocate con i coperchi sollevati, contrappasso che sarà spiegato nel Canto seguente dicendo che fra essi ci sono gli epicurei, che avevano proclamato la mortalità dell'anima; particolarmente interessato a questa categoria di dannati si mostra subito Dante, soprattutto perché sa (o intuisce) che fra loro si trova il concittadino Farinata Degli Uberti, la cui perdizione gli è stata preannunciata da Ciacco, e forse per l'interesse ai temi filosofici manifestato negli anni del suo «traviamento» e che aveva trovato espressione nel Convivio. Virgilio gli spiega che in ogni tomba sono costretti i seguaci di una stessa setta eretica, tormentati in misura maggiore o minore dal fuoco a seconda della gravità del peccato commesso: anche questo Canto si chiude prima che l'episodio abbia termine e rimanda l'attenzione a quello successivo, in cui avverrà l'incontro con Farinata che, forse, il lettore del poema si attendeva di trovare qui non meno di quanto se lo aspettasse Dante personaggio.
Note e passi controversi
Al v. 7 punga è metatesi per pugna, per ragioni di rima. Al v. 11, invece, dienne è forma rara per mi diede.
I vv. 17-18 indicano il Limbo (primo grado), dove le anime hanno come unica pena la speranza cionca («monca», «troncata»).
La regina de l'etterno pianto (v. 44) è Proserpina, la sposa mitologica di Plutone e regina degli Inferi, di cui le Furie sono dette meschine, serve (è parola di origine araba, da miskin, povero).
Il suono assordante che precede l'arrivo del messo (v. 64 ss.) è tratto prob. da un passo biblico, Act. Ap., II, 2 (et factus est repente de caelo sonus tamquam advenientis spiritus vehementis, «all'improvviso scese dal cielo un suono come di vento che soffia impetuoso»), così come l'immagine del vento che abbatte gli alberida Ezech., I, 4 (et ecce ventus turbinis veniebat ab aquilone, «ed ecco un vento tempestoso avanzare da settentrione»). La similitudine dei dannati che fuggono come rane di fronte alla biscia proviene invece da Ovidio, Met., VI, 370-381.
La verghetta che il messo ha in mano (v. 89) potrebbe essere lo scettro brandito da molti angeli nell'iconografia medievale, ma anche il caduceo di Mercurio.
Dante descrive le tombe di Dite con due similitudini, paragonandole al cimitero Des Alyscamps di Arles, sul Rodano, e alla necropoli di Pola, sul golfo del Quarnaro.
Al v. 133 li alti spaldi sono gli spalti della città di Dite.
I vv. 17-18 indicano il Limbo (primo grado), dove le anime hanno come unica pena la speranza cionca («monca», «troncata»).
La regina de l'etterno pianto (v. 44) è Proserpina, la sposa mitologica di Plutone e regina degli Inferi, di cui le Furie sono dette meschine, serve (è parola di origine araba, da miskin, povero).
Il suono assordante che precede l'arrivo del messo (v. 64 ss.) è tratto prob. da un passo biblico, Act. Ap., II, 2 (et factus est repente de caelo sonus tamquam advenientis spiritus vehementis, «all'improvviso scese dal cielo un suono come di vento che soffia impetuoso»), così come l'immagine del vento che abbatte gli alberida Ezech., I, 4 (et ecce ventus turbinis veniebat ab aquilone, «ed ecco un vento tempestoso avanzare da settentrione»). La similitudine dei dannati che fuggono come rane di fronte alla biscia proviene invece da Ovidio, Met., VI, 370-381.
La verghetta che il messo ha in mano (v. 89) potrebbe essere lo scettro brandito da molti angeli nell'iconografia medievale, ma anche il caduceo di Mercurio.
Dante descrive le tombe di Dite con due similitudini, paragonandole al cimitero Des Alyscamps di Arles, sul Rodano, e alla necropoli di Pola, sul golfo del Quarnaro.
Al v. 133 li alti spaldi sono gli spalti della città di Dite.
TestoQuel color che viltà di fuor mi pinse
veggendo il duca mio tornare in volta, più tosto dentro il suo novo ristrinse. 3 Attento si fermò com’uom ch’ascolta; ché l’occhio nol potea menare a lunga per l’aere nero e per la nebbia folta. 6 «Pur a noi converrà vincer la punga», cominciò el, «se non... Tal ne s’offerse. Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!». 9 I’ vidi ben sì com’ei ricoperse lo cominciar con l’altro che poi venne, che fur parole a le prime diverse; 12 ma nondimen paura il suo dir dienne, perch’io traeva la parola tronca forse a peggior sentenzia che non tenne. 15 «In questo fondo de la trista conca discende mai alcun del primo grado, che sol per pena ha la speranza cionca?». 18 Questa question fec’io; e quei «Di rado incontra», mi rispuose, «che di noi faccia il cammino alcun per qual io vado. 21 Ver è ch’altra fiata qua giù fui, congiurato da quella Eritón cruda che richiamava l’ombre a’ corpi sui. 24 Di poco era di me la carne nuda, ch’ella mi fece intrar dentr’a quel muro, per trarne un spirto del cerchio di Giuda. 27 Quell’è ’l più basso loco e ’l più oscuro, e ’l più lontan dal ciel che tutto gira: ben so ’l cammin; però ti fa sicuro. 30 Questa palude che ’l gran puzzo spira cigne dintorno la città dolente, u’ non potemo intrare omai sanz’ira». 33 E altro disse, ma non l’ho a mente; però che l’occhio m’avea tutto tratto ver’ l’alta torre a la cima rovente, 36 dove in un punto furon dritte ratto tre furie infernal di sangue tinte, che membra feminine avieno e atto, 39 e con idre verdissime eran cinte; serpentelli e ceraste avien per crine, onde le fiere tempie erano avvinte. 42 E quei, che ben conobbe le meschine de la regina de l’etterno pianto, «Guarda», mi disse, «le feroci Erine. 45 Quest’è Megera dal sinistro canto; quella che piange dal destro è Aletto; Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto. 48 Con l’unghie si fendea ciascuna il petto; battiensi a palme, e gridavan sì alto, ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto. 51 «Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto», dicevan tutte riguardando in giuso; «mal non vengiammo in Teseo l’assalto». 54 «Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso; ché‚ se ’l Gorgón si mostra e tu ’l vedessi, nulla sarebbe di tornar mai suso». 57 Così disse ’l maestro; ed elli stessi mi volse, e non si tenne a le mie mani, che con le sue ancor non mi chiudessi. 60 O voi ch’avete li ’ntelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde sotto ’l velame de li versi strani. 63 E già venia su per le torbide onde un fracasso d’un suon, pien di spavento, per cui tremavano amendue le sponde, 66 non altrimenti fatto che d’un vento impetuoso per li avversi ardori, che fier la selva e sanz’alcun rattento 69 li rami schianta, abbatte e porta fori; dinanzi polveroso va superbo, e fa fuggir le fiere e li pastori. 72 Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo del viso su per quella schiuma antica per indi ove quel fummo è più acerbo». 75 Come le rane innanzi a la nimica biscia per l’acqua si dileguan tutte, fin ch’a la terra ciascuna s’abbica, 78 vid’io più di mille anime distrutte fuggir così dinanzi ad un ch’al passo passava Stige con le piante asciutte. 81 Dal volto rimovea quell’aere grasso, menando la sinistra innanzi spesso; e sol di quell’angoscia parea lasso. 84 Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo, e volsimi al maestro; e quei fé segno ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso. 87 Ahi quanto mi parea pien di disdegno! Venne a la porta, e con una verghetta l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno. 90 «O cacciati del ciel, gente dispetta», cominciò elli in su l’orribil soglia, «ond’esta oltracotanza in voi s’alletta? 93 Perché recalcitrate a quella voglia a cui non puote il fin mai esser mozzo, e che più volte v’ha cresciuta doglia? 96 Che giova ne le fata dar di cozzo? Cerbero vostro, se ben vi ricorda, ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo». 99 Poi si rivolse per la strada lorda, e non fé motto a noi, ma fé sembiante d’omo cui altra cura stringa e morda 102 che quella di colui che li è davante; e noi movemmo i piedi inver’ la terra, sicuri appresso le parole sante. 105 Dentro li ’ntrammo sanz’alcuna guerra; e io, ch’avea di riguardar disio la condizion che tal fortezza serra, 108 com’io fui dentro, l’occhio intorno invio; e veggio ad ogne man grande campagna piena di duolo e di tormento rio. 111 Sì come ad Arli, ove Rodano stagna, sì com’a Pola, presso del Carnaro ch’Italia chiude e suoi termini bagna, 114 fanno i sepulcri tutt’il loco varo, così facevan quivi d’ogne parte, salvo che ’l modo v’era più amaro; 117 ché tra gli avelli fiamme erano sparte, per le quali eran sì del tutto accesi, che ferro più non chiede verun’arte. 120 Tutti li lor coperchi eran sospesi, e fuor n’uscivan sì duri lamenti, che ben parean di miseri e d’offesi. 123 E io: «Maestro, quai son quelle genti che, seppellite dentro da quell’arche, si fan sentir coi sospiri dolenti?». 126 Ed elli a me: «Qui son li eresiarche con lor seguaci, d’ogne setta, e molto più che non credi son le tombe carche. 129 Simile qui con simile è sepolto, e i monimenti son più e men caldi». E poi ch’a la man destra si fu vòlto, passammo tra i martiri e li alti spaldi. 133 |
ParafrasiQuel pallore che la mia viltà mi colorò sul viso, vedendo la mia guida tornare sui suoi passi, indusse Virgilio a trattenere dentro di sé i suoi dubbi. Si fermò, tendendo l'orecchio per ascoltare; infatti non poteva spingere lontano lo sguardo, a causa dell'oscurità e della fitta nebbia.
Cominciò a dire: «Eppure è inevitabile che noi vinceremo la battaglia, a meno che... ci è stato promesso un valido aiuto. Oh, come vorrei che arrivasse qui subito!» Io mi accorsi del fatto che cambiò discorso rispetto a quello che aveva iniziato, che probabilmente sarebbe stato diverso; nondimeno le sue parole crearono in me paura, perché io interpretavo la frase interrotta con un senso forse peggiore di quanto non avesse in realtà. «È mai successo che un'anima del I Cerchio, la cui unica pena è non avere speranza di salvezza, sia scesa in fondo al basso Inferno?» Io posi questa domanda a Virgilio, e lui rispose: «Accade raramente che qualcuno di noi compia questo stesso cammino. È pur vero che io scesi già qui un'altra volta, evocato da quella crudele maga Eritone che richiamava le anime nei loro corpo. Mi ero separato da poco dal mio corpo (ero morto da poco tempo), quando lei mi fece entrare dentro quelle mura (di Dite) per trarre uno spirito fuori dalla Giudecca. Quello è il punto più basso e oscuro dell'inferno, nonché il più lontano dal Primo Mobile: io so bene la strada, perciò sta' tranquillo. Questa palude che emana il gran puzzo cinge tutt'intorno la città di Dite, dove ormai non potremo entrare senza forzare la volontà dei demoni». Aggiunse altro, ma non lo ricordo, poiché il mio sguardo fu attirato verso l'alta torre dalla cima arroventata, dove in un punto si erano affacciate le tre Furie infernali, sporche di sangue, che avevano membra e comportamento femminili, ed erano circondate da idre verdissime; avevano per capelli serpentelli e ceraste, di cui avevano avvolte le tempie. E Virgilio, che riconobbe subito le ancelle della regina dell'Inferno (Proserpina), mi disse: «Guarda le feroci Erinni (Furie). Questa a sinistra è Megera; quella che piange a destra è Aletto; Tesifone è al centro»; a quel punto tacque. Ciascuna si squarciava il petto con le unghie; si battevano con le palme delle mani, e gridavano così forte che io, per paura, mi strinsi a Virgilio. «Venga qui Medusa, così lo trasformeremo in pietra!», dicevano tutte guardando in basso; «facemmo male a non vendicare l'assalto di Teseo!» «Voltati indietro e tieni gli occhi chiusi: infatti, se la Gorgone si mostrasse e tu la vedessi, non avresti alcuna speranza di tornare sulla Terra». Così disse il maestro; ed egli stesso mi fece voltare, e non si accontentò che io mi mettessi le mani sugli occhi, ma aggiunse anche le sue. O voi che avete gli intelletti integri, osservate bene l'insegnamento che si cela sotto il velo dei miei versi misteriosi. Già arrivava lungo le acque fangose dello Stige un gran frastuono, che faceva paura, per cui entrambe le sponde tremavano, proprio come un vento impetuoso che per le temperature contrarie colpisce la selva e senza alcun riguardo schianta, abbatte e trascina via i rami; procede superbo tra la polvere, facendo scappare belve e pastori. Virgilio mi fece aprire gli occhi e disse: «Ora punta lo sguardo verso quell'antico pantano, dove il vapore è più fitto». Come le rane fuggono tutte davanti alla biscia loro avversaria, finché ciascuna si ammucchia sulla terraferma, così io vidi più di mille anime di iracondi fuggire davanti ad uno che attraversava lo Stige camminando, coi piedi asciutti. Con la mano sinistra scacciava spesso il fumo dal volto e ciò sembrava il suo unico fastidio. Capii subito che quello era il messo celeste e mi rivolsi al maestro; e lui mi fece cenno che stessi calmo e mi inchinassi al nuovo venuto. Oh, quanto mi sembrava pieno di disprezzo (verso l'Inferno)! Giunse alla porta di Dite e con l'aprì con un bastoncino, senza incontrare opposizione. «O voi che il Cielo ha scacciato, gente disprezzata,» cominciò a dire sulla orribile soglia, «da dove trae origine in voi questa alterigia? Perché vi opponete a quel volere che non può mai non andare a buon fine, e che più volte ha accresciuto le vostre pene? A cosa serve opporsi al destino? Il vostro Cerbero, se ricordate bene, porta ancora il mento e la gola spellati per questo». Poi tornò per il cammino fangoso, senza rivolgerci la parola, ma diede l'impressione di qualcuno che abbia ben altre preoccupazioni rispetto a ciò che ha di fronte; e noi ci muovemmo verso la terra, sicuri dopo quelle sante parole. Entrammo nella città senza ulteriori ostacoli; e io, che avevo desiderio di guardare la condizione delle anime chiuse in quella fortezza, come fui dentro volsi qua e là lo sguardo; e vidi tutt'intorno una grande spianata, piena di orribili dolori e tormenti. Proprio come ad Arles, dove il Rodano s'impaluda, e come a Pola, presso il golfo del Quarnaro che è ai confini d'Italia e li bagna, i sepolcri rendono il luogo tutto accidentato, così avveniva qui , salvo che le tombe producevano più dolore; Infatti tra le tombe erano sparse delle fiamme, che li arroventavano in modo tale che nessun lavoro artigianale richiede ferro più caldo. Tutti i coperchi erano aperti e puntellati, e ne uscivano lamenti così miseri che parevano proprio di anime dannate. E io: «Maestro, chi sono quelle anime che, sepolte dentro quelle tombe, si fanno sentire coi dolenti sospiri?» E lui a me: «Qui ci sono gli eresiarchi coi loro seguaci d'ogni setta, e le tombe sono ricolme assai più di quanto non credi. Qui ogni eretico è sepolto col suo simile e le tombe sono più o meno calde». E dopo che si fu rivolto verso destra, ci incamminammo tra le tombe e gli alti spalti. |