Purgatorio, Canto VII
S. Dalì, Sordello da Goito
"...Io son Virgilio; e per null'altro rio
lo ciel perdei che per non aver fé".
Così rispuose allora il duca mio...
"...Anime sono a destra qua remote;
se mi consenti, io ti merrò ad esse,
e non sanza diletto ti fier note..."
Non avea pur natura ivi dipinto,
ma di soavità di mille odori
vi facea uno incognito e indistinto...
lo ciel perdei che per non aver fé".
Così rispuose allora il duca mio...
"...Anime sono a destra qua remote;
se mi consenti, io ti merrò ad esse,
e non sanza diletto ti fier note..."
Non avea pur natura ivi dipinto,
ma di soavità di mille odori
vi facea uno incognito e indistinto...
Argomento del Canto
Ancora nel secondo balzo dell'Antipurgatorio. Colloquio tra Virgilio e Sordello, che spiega la legge della salita nel Purgatorio. I tre poeti raggiungono la valletta. Sordello passa in rassegna i principi negligenti.
È il tardo pomeriggio di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, fra le quattro e le sei.
È il tardo pomeriggio di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, fra le quattro e le sei.
Colloquio tra Virgilio e Sordello (1-39)
Sordello, dopo aver ripetuto alcune volte le sue felicitazioni al concittadino Virgilio, chiede a lui e Dante chi siano e il poeta latino risponde di essere morto quando Ottaviano era al potere, prima dell'avvento del Cristianesimo. Si presenta come Virgilio e dichiara di non essere salvo solo per non aver avuto fede. A questo punto Sordello resta stupito e incredulo, poi abbassa lo sguardo e abbraccia Virgilio alle ginocchia in segno di rispetto, rivolgendogli parole di elogio per la sua altissima poesia e chiedendogli infine se viene dall'Inferno e da quale Cerchio. Virgilio ribatte di aver attraversato tutto l'Inferno e di essere guidato dalla virtù divina, quindi ribadisce di non essere salvo solo per non aver creduto in Dio. Spiega inoltre di provenire dal Limbo, dove le anime non subiscono alcun tormento e dove lui risiede insieme ai bambini innocenti che sono morti prima del battesimo, e a coloro che hanno posseduto le virtù cardinali ma non quelle teologali. Virgilio chiede infine a Sordello di indicar loro la via per giungere alla porta del Purgatorio.
La legge della salita nel Purgatorio (40-63)
Sordello risponde che lui e le altre anime non hanno una sede fissa, ma è loro consentito vagare per il monte; tuttavia ora il sole sta per tramontare e salire col buio è impossibile, quindi è bene pensare a dove trascorrere la notte. Aggiunge che poco lontano ci sono altre anime separate dalle altre e, se Virgilio è d'accordo, li condurrà ad esse. Il poeta latino è stupito e chiede a Sordello se salire di notte è di fatto impossibile o è vietato da qualcuno, allora l'altro si china in terra e traccia una riga sul suolo col dito, spiegando che col buio non si potrebbe varcare neppure quella. Solo le tenebre impediscono l'ascesa, perché le anime rischierebbero di tornare in basso o di vagare senza meta lungo il monte. Allora Virgilio, pieno di meraviglia, chiede a Sordello di condurre lui e Dante al luogo che ha detto prima.
La valletta dei principi (64-90)
G. Doré, La valletta dei principi
I tre si allontanano di poco e Dante vede che il monte è incavato sul fianco, ospitando un'ampia valletta; Sordello spiega che in quel luogo conviene trascorrre la notte. Un sentiero obliquo li conduce sul fianco del monte, in un punto a meno di metà dell'altezza della valletta, dove la natura si presenta rigogliosa e bellissima. L'erba e i fiori sono di colori così vivi che vincerebbero sicuramente le tinte più preziose e raffinate usate dai pittori per dipingere, come l'oro, l'argento, lo smeraldo. Lo spettacolo non è solo visivo, in quanto i fiori emanano un profumo che mescola in sé mille odori soavi. Sedute sul prato e sui fiori Dante vede più di mille anime (i principi negligenti) che intonano il Salve, Regina, non visibili fuori dalla valle. Sordello dice di non voler guidare Dante e Virgilio giù tra gli spiriti prima del tramonto, ma che è preferibile osservarli da quel ripiano dall'alto, da dove li potranno vedere tutti.
I principi negligenti (91-136)
L. Minnigerode, Rodolfo I d'Asburgo
Sordello inizia a indicare alcuni spiriti ospitati nella valletta: il primo siede più in alto degli altri e mostra di aver trascurato il suo dovere, non partecipando al canto della preghiera, ed è l'imperatore Rodolfo I d'Asburgo, che avrebbe potuto risolvere i problemi dell'Italia. Un altro che sembra confortarlo col suo aspetto governò la terra (Boemia) dove nasce la Moldava che poi sfocia in Elba: è Ottocaro II, che fin da piccolo fu migliore di suo figlio Venceslao II, che vive nella lussuria e nell'ozio. Sordello indica poi uno spirito dal naso sottile (Filippo III l'Ardito), che morì in fuga e disonorando la Francia, mentre accanto a lui un altro appoggia la guancia al palmo della mano (è Enrico I di Navarra, suocero di Filippo il Bello di cui Filippo III è il padre: entrambi conoscono la sua vita peccaminosa e ne sono addolorati). Sordello nomina ancora uno spirito dall'aspetto robusto (Pietro III d'Aragona) accanto a un altro dal naso prominente (Carlo I d'Angiò), che cantano all'unisono: se a Pietro fosse succeduto il giovinetto che ora siede dietro di lui, l'erede del suo regno sarebbe stato valoroso, il che non si può dire degli eredi attuali, Giacomo re d'Aragona e Federico re di Sicilia. È raro, spiega Sordello, che la virtù dei padri si trasmetta ai figli e ciò è voluto da Dio affinché gli uomini la chiedano a Lui. Egli si riferisce anche a Carlo I d'Angiò, dal momento che il regno di Napoli e la Provenza si dolgono di essere governati dal suo successore: Carlo II è tanto inferiore al padre, quanto Carlo I lo è rispetto a Pietro III d'Aragona. Sordello indica ancora il re d'Inghilterra Enrico III, che ebbe vita semplice e siede in disparte, potendo vantarsi di avere eredi migliori; siede invece più basso degli altri il marchese Guglielmo VII del Monferrato, il quale fu causa della guerra contro Alessandria che ancora provoca danni al Monferrato e al Canavese.
Interpretazione complessiva
Il Canto è strettamente legato al precedente, non solo per la presenza dello stesso protagonista Sordello, ma anche perché entrambi hanno argomento politico (il VI era dedicato all'Italia, bersaglio polemico dell'invettiva di Dante, mentre la seconda parte del VII è occupata dalla rassegna dei principi della valletta che vengono mostrati da Sordello ai due poeti). L'apertura si collega ai vv. 71-75 del Canto VI, col penitente che si felicita col concittadino Virgilio e poi ne apprende il nome, gettandosi ai suoi piedi in segno di rispetto e dedicandogli un commosso elogio per i suoi meriti di poeta; è una situazione che anticipa quella dei Canti XXI-XXII, in cui il poeta latino riceverà gli elogi ancora più appassionati di Stazio. Il riconoscimento dell'alto magistero poetico di Virgilio da parte di Sordello non è casuale, in quanto tutta la seconda parte del Canto con la presentazione delle anime della valletta sarà un chiaro riferimento al libro VI dell'Eneide, all'episodio in cui l'ombra di Anchise mostra al figlio Enea nei Campi Elisi le anime dei futuri grandi eroi di Roma: già prima Sordello, spiegando la legge della salita nel Purgatorio, aveva detto Loco certo non c'è posto, che riprende Aen., VI, 673 (Nulli certa domus, la risposta alla Sibilla del poeta Museo prima di scortare lei ed Enea al luogo dov'è Anchise). Virgilio ribadisce inoltre per ben due volte il fatto di provenire dal Limbo, ovvero da un luogo fisicamente posto all'Inferno ma in cui le anime non soffrono alcuna pena, in quanto la loro unica colpa è stata quella di non aver posseduto le virtù teologali. C'è una sorta di parallelismo tra la sua condizione ultraterrena e quella delle anime dei giusti che lui stesso aveva descritto nei Campi Elisi, così come quella dei principi che abitano la valletta; in questo luogo, tra l'altro, converrà trascorrere la notte, poiché come spiega Sordello è impossibile salire col buio che rischierebbe di far scender le anime in basso (e già Virgilio aveva raccomandato a Dante di salire pur su al monte, e lo aveva avvertito che l'ascesa sarebbe durata più di un giorno).
Sordello scorta poi i due poeti alla valletta, scavata sul fianco del monte e dove i principi non sono visibili all'esterno: è un luogo dalla natura rigogliosa, con l'erba verde e i fiori colorati e profumati, che rappresenta quasi un'anticipazione dell'Eden. Dante sottolinea il fatto che uno spettacolo così ameno è frutto dell'arte divina, poiché i colori più vivi dei pittori non potrebbero gareggiare con lo splendore dell'erba e dei fiori, né col loro odore soave (è il tema dell'arte umana che non può riprodurre la natura creata da Dio, già presente nel proemio della Cantica e che sarà ripreso nei Canti dedicati ai superbi). È naturalmente Sordello a passare in rassegna i più ragguardevoli tra i principi che si trovano nella valletta, stando su un'altura rocciosa come Anchise aveva fatto con Enea nell'episodio citato: la scelta di Sordello come guida di Dante e Virgilio è legata al Compianto in morte di Ser Blacatz da lui composto, in cui aveva biasimato i vizi dei principali sovrani del suo tempo secondo lo schema del planh provenzale. Le analogie sono molte, a partire dal fatto che nel Compianto egli cita otto sovrani partendo dall'imperatore e finendo con due vassalli minori, come fa qui Dante che parte da Rodolfo e finisce con Guglielmo del Monferrato; notevoli sono però anche le differenze, perché Dante non critica tanto le colpe di questi principi (che furono «negligenti» soprattutto per la cura della loro anima, essendosi pentiti tardivamente) quanto quelle dei loro successori che diventano il vero bersaglio polemico di Sordello. La rassegna anticipa quella di Par., XIX, 115 ss., in cui l'aquila accuserà duramente i cattivi principi cristiani, e si collega a tutti quei passi del poema in cui Dante rimprovera i sovrani temporali di non amministrare nel modo dovuto la giustizia, fatto che è all'origine di tanti mali che affliggevano l'Italia (e l'Europa) del Trecento.
I principi vengono mostrati a coppie, a cominciare da Rodolfo I d'Asburgo (l'imperatore siede più alto di tutti e si rammarica di non aver fatto fino in fondo il proprio dovere) e Ottocaro II di Boemia, che in vita furono nemici e si combatterono strenuamente: Ottocaro contestò la nomina imperiale di Rodolfo, mentre qui in Purgatorio ne la vista lui conforta, quindi i due implacabili nemici si sono riconciliati e hanno perdonato le offese subìte. Se Rodolfo ha le sue colpe avendo lasciato vacante la sede imperiale in Italia, cosa che Dante rimproverava anche al figlio Alberto nel Canto precedente, Ottocaro è stato invece un ottimo sovrano e può rammaricarsi del successore, il figlio Venceslao II che fu uomo inetto e vizioso e che Dante accuserà anche nel passo citato del Paradiso. L'altra coppia è formata da Filippo III l'Ardito e Enrico I di Navarra, rispettivamente padre e suocero di Filippo il Bello che Dante più volte biasima nel poema: entrambi furono valenti sovrani e si rammaricano proprio della vita... viziata e lorda dell'attuale re di Francia, il primo battendosi il petto e il secondo sospirando (di Filippo III viene detto che morì fuggendo e disfiorando il giglio, con allusione al disastro della flotta francese a Las Formiguas del 1285: può essere un'accusa di aver disonorato la corona, ma forse è solo un accenno al fatto che con quella guerra la Francia perse un petalo del giglio, ovvero la Sicilia). Seguono poi Carlo I d'Angiò e Pietro III d'Aragona, che morirono entrambi nel 1285 e furono in vita fieri avversari come Rodolfo e Ottocaro, mentre qui cantano in perfetto accordo: anch'essi si rammaricano dei loro successori, sia Pietro che ha lasciato Sicilia ed Aragona a Federico e Giacomo (l'onor di Cicilia e d'Aragona, entrambi più volte attaccati da Dante), sia Carlo che ha lasciato Provenza e regno di Napoli a Carlo II lo Zoppo, tanto inferiore al padre quanto lui lo è rispetto a Pietro III. L'ultima coppia non ha legami apparenti, essendo formata da Enrico III d'Inghilterra (ottimo sovrano, dalla vita semplice e dai buoni successori) e da Guglielmo VII del Monferrato, che morì per mano degli Alessandrini e che il figlio Giovanni volle vendicare con una lunga e sanguinosa guerra, che causò gravi danni alle sue terre; Guglielmo è seduto in posizione più bassa rispetto agli altri, in quanto occupa una posizione politica di minor prestigio, e guarda in suso (forse verso i sovrani più importanti, ma forse verso il Cielo in segno di preghiera).
L'elemento più importante della rassegna non è solo il rimprovero al malgoverno dei principi sulla Terra che verrà ripreso in altri passi di Purgatorio e Paradiso, ma soprattutto la rappresentazione di queste anime come sciolte dalle loro cure terrene, tutte volte al loro percorso di espiazione, per cui anche gli antichi nemici siedono accanto e mostrano una perfetta armonia. Ciò si accorda con la presentazione dei morti per forza del Canto V, i quali non avevano parole di odio o astio verso i loro uccisori ma si preoccupavano unicamente di essere ricordati dai vivi; l'episodio della valletta, che si concluderà nel Canto seguente con l'incontro fra Dante e altri penitenti, prepara il terreno alla rappresentazione del Purgatorio vero e proprio, che sarà dominata dall'atteggiamento sereno e rassegnato delle anime, anche in questo ben diverso da quello dimostrato dai dannati incontrati nella discesa all'Inferno.
Sordello scorta poi i due poeti alla valletta, scavata sul fianco del monte e dove i principi non sono visibili all'esterno: è un luogo dalla natura rigogliosa, con l'erba verde e i fiori colorati e profumati, che rappresenta quasi un'anticipazione dell'Eden. Dante sottolinea il fatto che uno spettacolo così ameno è frutto dell'arte divina, poiché i colori più vivi dei pittori non potrebbero gareggiare con lo splendore dell'erba e dei fiori, né col loro odore soave (è il tema dell'arte umana che non può riprodurre la natura creata da Dio, già presente nel proemio della Cantica e che sarà ripreso nei Canti dedicati ai superbi). È naturalmente Sordello a passare in rassegna i più ragguardevoli tra i principi che si trovano nella valletta, stando su un'altura rocciosa come Anchise aveva fatto con Enea nell'episodio citato: la scelta di Sordello come guida di Dante e Virgilio è legata al Compianto in morte di Ser Blacatz da lui composto, in cui aveva biasimato i vizi dei principali sovrani del suo tempo secondo lo schema del planh provenzale. Le analogie sono molte, a partire dal fatto che nel Compianto egli cita otto sovrani partendo dall'imperatore e finendo con due vassalli minori, come fa qui Dante che parte da Rodolfo e finisce con Guglielmo del Monferrato; notevoli sono però anche le differenze, perché Dante non critica tanto le colpe di questi principi (che furono «negligenti» soprattutto per la cura della loro anima, essendosi pentiti tardivamente) quanto quelle dei loro successori che diventano il vero bersaglio polemico di Sordello. La rassegna anticipa quella di Par., XIX, 115 ss., in cui l'aquila accuserà duramente i cattivi principi cristiani, e si collega a tutti quei passi del poema in cui Dante rimprovera i sovrani temporali di non amministrare nel modo dovuto la giustizia, fatto che è all'origine di tanti mali che affliggevano l'Italia (e l'Europa) del Trecento.
I principi vengono mostrati a coppie, a cominciare da Rodolfo I d'Asburgo (l'imperatore siede più alto di tutti e si rammarica di non aver fatto fino in fondo il proprio dovere) e Ottocaro II di Boemia, che in vita furono nemici e si combatterono strenuamente: Ottocaro contestò la nomina imperiale di Rodolfo, mentre qui in Purgatorio ne la vista lui conforta, quindi i due implacabili nemici si sono riconciliati e hanno perdonato le offese subìte. Se Rodolfo ha le sue colpe avendo lasciato vacante la sede imperiale in Italia, cosa che Dante rimproverava anche al figlio Alberto nel Canto precedente, Ottocaro è stato invece un ottimo sovrano e può rammaricarsi del successore, il figlio Venceslao II che fu uomo inetto e vizioso e che Dante accuserà anche nel passo citato del Paradiso. L'altra coppia è formata da Filippo III l'Ardito e Enrico I di Navarra, rispettivamente padre e suocero di Filippo il Bello che Dante più volte biasima nel poema: entrambi furono valenti sovrani e si rammaricano proprio della vita... viziata e lorda dell'attuale re di Francia, il primo battendosi il petto e il secondo sospirando (di Filippo III viene detto che morì fuggendo e disfiorando il giglio, con allusione al disastro della flotta francese a Las Formiguas del 1285: può essere un'accusa di aver disonorato la corona, ma forse è solo un accenno al fatto che con quella guerra la Francia perse un petalo del giglio, ovvero la Sicilia). Seguono poi Carlo I d'Angiò e Pietro III d'Aragona, che morirono entrambi nel 1285 e furono in vita fieri avversari come Rodolfo e Ottocaro, mentre qui cantano in perfetto accordo: anch'essi si rammaricano dei loro successori, sia Pietro che ha lasciato Sicilia ed Aragona a Federico e Giacomo (l'onor di Cicilia e d'Aragona, entrambi più volte attaccati da Dante), sia Carlo che ha lasciato Provenza e regno di Napoli a Carlo II lo Zoppo, tanto inferiore al padre quanto lui lo è rispetto a Pietro III. L'ultima coppia non ha legami apparenti, essendo formata da Enrico III d'Inghilterra (ottimo sovrano, dalla vita semplice e dai buoni successori) e da Guglielmo VII del Monferrato, che morì per mano degli Alessandrini e che il figlio Giovanni volle vendicare con una lunga e sanguinosa guerra, che causò gravi danni alle sue terre; Guglielmo è seduto in posizione più bassa rispetto agli altri, in quanto occupa una posizione politica di minor prestigio, e guarda in suso (forse verso i sovrani più importanti, ma forse verso il Cielo in segno di preghiera).
L'elemento più importante della rassegna non è solo il rimprovero al malgoverno dei principi sulla Terra che verrà ripreso in altri passi di Purgatorio e Paradiso, ma soprattutto la rappresentazione di queste anime come sciolte dalle loro cure terrene, tutte volte al loro percorso di espiazione, per cui anche gli antichi nemici siedono accanto e mostrano una perfetta armonia. Ciò si accorda con la presentazione dei morti per forza del Canto V, i quali non avevano parole di odio o astio verso i loro uccisori ma si preoccupavano unicamente di essere ricordati dai vivi; l'episodio della valletta, che si concluderà nel Canto seguente con l'incontro fra Dante e altri penitenti, prepara il terreno alla rappresentazione del Purgatorio vero e proprio, che sarà dominata dall'atteggiamento sereno e rassegnato delle anime, anche in questo ben diverso da quello dimostrato dai dannati incontrati nella discesa all'Inferno.
Note e passi controversi
Il v. 15 (e abbracciòl là 've 'l minor s'appiglia) indica che Sordello abbraccia Virgilio non al collo, come tra pari, ma in un punto più basso come si conviene a chi è inferiore, quindi probabilmente alle ginocchia o ai piedi.
Il verbo merrò (v. 47) significa «condurrò» ed è forma contratta di «menerò».
Al v. 71 in fianco de la lacca vuol dire «sul fianco dell'avvallamento» (lacca indica una cavità, una fossa).
Il v. 72 non è del tutto chiaro e vuol dire probabilmente «nel punto dove l'argine digradava di più della metà della sua altezza».
I termini usati ai vv. 73-75 sono tecnicismi che indicano i colori usati dai pittori: l'oro e l'argento fine sono le polveri stemperate per ottenere queste due tinte, il cocco è il carminio (colore ricavato dalla conchiglia), la biacca è il bianco di zinco, l'indaco è l'azzurro, il legno lucido e sereno è prob. la lychite, pietra preziosa del colore del legno quando è ben levigato, lo smeraldo è il verde quando la pietra preziosa si spezza (ne l'ora che si fiacca). Alcuni editori leggono il v. 74 indaco legno, lucido e sereno, intendendo l'ebano (il legno indiano) e l'azzurro del cielo, ma pare poco probabile che Dante citi l'ebano accanto agli altri colori sgargianti della scena.
Il v. 96 (sì che tardi per altri si ricrea) potrebbe essere un'allusione ad Arrigo VII di Lussemburgo e al suo tentativo di restaurazione imperiale in Italia, il che però abbasserebbe la data di composizione del Canto al 1310-13; altri pensano a un ritocco posteriore o a un accenno generico.
I vv. 98-99 indicano la Boemia, la terra dove nasce la Moldava (Molta) che sfocia nell'Elba (Albia), che a sua volta sfocia in mare.
Il nasetto citato al v. 103 è Filippo III l'Ardito, di cui si dice al v. 105 che morì fuggendo e disfiorando il giglio con allusione al disastro della flotta francese a Las Formiguas contro contro gli Aragonesi (non è detto che il verso abbia valore spregiativo).
Il mal di Francia (v. 109) è Filippo il Bello.
Il giovanetto indicato al v. 116 può essere Alfonso III, il primogenito di Pietro III che tenne il regno d'Aragona dal 1285 al 1291, ma forse Dante si riferisce all'ultimo figlio Pietro, premorto al padre.
Ai vv. 128-129 sono citate Beatrice e Margherita, prima e seconda moglie di Carlo I d'Angiò, e Costanza, la figlia di Manfredi di Svevia che fu moglie di Pietro III; Dante intende dire che Costanza può vantarsi del marito più delle altre due, quindi Carlo II è inferiore a Carlo I quanto quest'ultimo lo fu rispetto a Pietro III.
Il verbo merrò (v. 47) significa «condurrò» ed è forma contratta di «menerò».
Al v. 71 in fianco de la lacca vuol dire «sul fianco dell'avvallamento» (lacca indica una cavità, una fossa).
Il v. 72 non è del tutto chiaro e vuol dire probabilmente «nel punto dove l'argine digradava di più della metà della sua altezza».
I termini usati ai vv. 73-75 sono tecnicismi che indicano i colori usati dai pittori: l'oro e l'argento fine sono le polveri stemperate per ottenere queste due tinte, il cocco è il carminio (colore ricavato dalla conchiglia), la biacca è il bianco di zinco, l'indaco è l'azzurro, il legno lucido e sereno è prob. la lychite, pietra preziosa del colore del legno quando è ben levigato, lo smeraldo è il verde quando la pietra preziosa si spezza (ne l'ora che si fiacca). Alcuni editori leggono il v. 74 indaco legno, lucido e sereno, intendendo l'ebano (il legno indiano) e l'azzurro del cielo, ma pare poco probabile che Dante citi l'ebano accanto agli altri colori sgargianti della scena.
Il v. 96 (sì che tardi per altri si ricrea) potrebbe essere un'allusione ad Arrigo VII di Lussemburgo e al suo tentativo di restaurazione imperiale in Italia, il che però abbasserebbe la data di composizione del Canto al 1310-13; altri pensano a un ritocco posteriore o a un accenno generico.
I vv. 98-99 indicano la Boemia, la terra dove nasce la Moldava (Molta) che sfocia nell'Elba (Albia), che a sua volta sfocia in mare.
Il nasetto citato al v. 103 è Filippo III l'Ardito, di cui si dice al v. 105 che morì fuggendo e disfiorando il giglio con allusione al disastro della flotta francese a Las Formiguas contro contro gli Aragonesi (non è detto che il verso abbia valore spregiativo).
Il mal di Francia (v. 109) è Filippo il Bello.
Il giovanetto indicato al v. 116 può essere Alfonso III, il primogenito di Pietro III che tenne il regno d'Aragona dal 1285 al 1291, ma forse Dante si riferisce all'ultimo figlio Pietro, premorto al padre.
Ai vv. 128-129 sono citate Beatrice e Margherita, prima e seconda moglie di Carlo I d'Angiò, e Costanza, la figlia di Manfredi di Svevia che fu moglie di Pietro III; Dante intende dire che Costanza può vantarsi del marito più delle altre due, quindi Carlo II è inferiore a Carlo I quanto quest'ultimo lo fu rispetto a Pietro III.
TestoPoscia che l’accoglienze oneste e liete
furo iterate tre e quattro volte, Sordel si trasse, e disse: «Voi, chi siete?». 3 «Anzi che a questo monte fosser volte l’anime degne di salire a Dio, fur l’ossa mie per Ottavian sepolte. 6 Io son Virgilio; e per null’altro rio lo ciel perdei che per non aver fé». Così rispuose allora il duca mio. 9 Qual è colui che cosa innanzi sé sùbita vede ond’e’ si maraviglia, che crede e non, dicendo «Ella è... non è...», 12 tal parve quelli; e poi chinò le ciglia, e umilmente ritornò ver’ lui, e abbracciòl là ‘ve ‘l minor s’appiglia. 15 «O gloria di Latin», disse, «per cui mostrò ciò che potea la lingua nostra, o pregio etterno del loco ond’io fui, 18 qual merito o qual grazia mi ti mostra? S’io son d’udir le tue parole degno, dimmi se vien d’inferno, e di qual chiostra». 21 «Per tutt’i cerchi del dolente regno», rispuose lui, «son io di qua venuto; virtù del ciel mi mosse, e con lei vegno. 24 Non per far, ma per non fare ho perduto a veder l’alto Sol che tu disiri e che fu tardi per me conosciuto. 27 Luogo è là giù non tristo di martìri, ma di tenebre solo, ove i lamenti non suonan come guai, ma son sospiri. 30 Quivi sto io coi pargoli innocenti dai denti morsi de la morte avante che fosser da l’umana colpa essenti; 33 quivi sto io con quei che le tre sante virtù non si vestiro, e sanza vizio conobber l’altre e seguir tutte quante. 36 Ma se tu sai e puoi, alcuno indizio dà noi per che venir possiam più tosto là dove purgatorio ha dritto inizio». 39 Rispuose: «Loco certo non c’è posto; licito m’è andar suso e intorno; per quanto ir posso, a guida mi t’accosto. 42 Ma vedi già come dichina il giorno, e andar sù di notte non si puote; però è buon pensar di bel soggiorno. 45 Anime sono a destra qua remote: se mi consenti, io ti merrò ad esse, e non sanza diletto ti fier note». 48 «Com’è ciò?», fu risposto. «Chi volesse salir di notte, fora elli impedito d’altrui, o non sarria ché non potesse?». 51 E ‘l buon Sordello in terra fregò ‘l dito, dicendo: «Vedi? sola questa riga non varcheresti dopo ‘l sol partito: 54 non però ch’altra cosa desse briga, che la notturna tenebra, ad ir suso; quella col nonpoder la voglia intriga. 57 Ben si poria con lei tornare in giuso e passeggiar la costa intorno errando, mentre che l’orizzonte il dì tien chiuso». 60 Allora il mio segnor, quasi ammirando, «Menane», disse, «dunque là ‘ve dici ch’aver si può diletto dimorando». 63 Poco allungati c’eravam di lici, quand’io m’accorsi che ‘l monte era scemo, a guisa che i vallon li sceman quici. 66 «Colà», disse quell’ombra, «n’anderemo dove la costa face di sé grembo; e là il novo giorno attenderemo». 69 Tra erto e piano era un sentiero schembo, che ne condusse in fianco de la lacca, là dove più ch’a mezzo muore il lembo. 72 Oro e argento fine, cocco e biacca, indaco, legno lucido e sereno, fresco smeraldo in l’ora che si fiacca, 75 da l’erba e da li fior, dentr’a quel seno posti, ciascun saria di color vinto, come dal suo maggiore è vinto il meno. 78 Non avea pur natura ivi dipinto, ma di soavità di mille odori vi facea uno incognito e indistinto. 81 ’Salve, Regina’ in sul verde e ‘n su’ fiori quindi seder cantando anime vidi, che per la valle non parean di fuori. 84 «Prima che ‘l poco sole omai s’annidi», cominciò ‘l Mantoan che ci avea vòlti, «tra color non vogliate ch’io vi guidi. 87 Di questo balzo meglio li atti e ‘ volti conoscerete voi di tutti quanti, che ne la lama giù tra essi accolti. 90 Colui che più siede alto e fa sembianti d’aver negletto ciò che far dovea, e che non move bocca a li altrui canti, 93 Rodolfo imperador fu, che potea sanar le piaghe c’hanno Italia morta, sì che tardi per altri si ricrea. 96 L’altro che ne la vista lui conforta, resse la terra dove l’acqua nasce che Molta in Albia, e Albia in mar ne porta: 99 Ottacchero ebbe nome, e ne le fasce fu meglio assai che Vincislao suo figlio barbuto, cui lussuria e ozio pasce. 102 E quel nasetto che stretto a consiglio par con colui c’ha sì benigno aspetto, morì fuggendo e disfiorando il giglio: 105 guardate là come si batte il petto! L’altro vedete c’ha fatto a la guancia de la sua palma, sospirando, letto. 108 Padre e suocero son del mal di Francia: sanno la vita sua viziata e lorda, e quindi viene il duol che sì li lancia. 111 Quel che par sì membruto e che s’accorda, cantando, con colui dal maschio naso, d’ogne valor portò cinta la corda; 114 e se re dopo lui fosse rimaso lo giovanetto che retro a lui siede, ben andava il valor di vaso in vaso, 117 che non si puote dir de l’altre rede; Iacomo e Federigo hanno i reami; del retaggio miglior nessun possiede. 120 Rade volte risurge per li rami l’umana probitate; e questo vole quei che la dà, perché da lui si chiami. 123 Anche al nasuto vanno mie parole non men ch’a l’altro, Pier, che con lui canta, onde Puglia e Proenza già si dole. 126 Tant’è del seme suo minor la pianta, quanto più che Beatrice e Margherita, Costanza di marito ancor si vanta. 129 Vedete il re de la semplice vita seder là solo, Arrigo d’Inghilterra: questi ha ne’ rami suoi migliore uscita. 132 Quel che più basso tra costor s’atterra, guardando in suso, è Guiglielmo marchese, per cui e Alessandria e la sua guerra fa pianger Monferrato e Canavese». 136 |
ParafrasiDopo che le felicitazioni furono ripetute varie volte, Sordello si tirò indietro e disse: «Voi chi siete?»
«Prima che le anime degne di salire a Dio fossero indirizzate a questo monte, le mie ossa furono sepolte per ordine di Ottaviano. Io sono Virgilio e ho perso la salvezza per nessun'altra colpa se non quella di non aver avuto fede». Così gli rispose il mio maestro. Come colui che vede d'improvviso davanti a sé una cosa che suscita la sua meraviglia, per cui crede e non crede, dicendo tra sé «è vero... non è vero...», così mi sembrò Sordello; poi abbassò gli occhi e con umiltà tornò verso Virgilio, abbracciandolo là dove suole farlo chi è inferiore. Disse: «O gloria degli Italiani, attraverso il quale la nostra lingua mostrò le sue possibilità, o pregio eterno del luogo (Mantova) da cui sono originario, per quale merito o grazia sei mostrato a me? Se io sono degno di udire le tue parole, dimmi se vieni dall'Inferno e da quale Cerchio». Virgilio gli rispose: «Sono giunto qui attraverso tutti i Cerchi del regno del dolore; mi ha mosso una virtù scesa dal Cielo e vengo accompagnato da lei. Ho perduto la possibilità di vedere l'alto Sole (Dio) che tu desideri, e che ho conosciuto troppo tardi, non per ciò che ho fatto, ma per ciò che non ho fatto. Nell'Inferno c'è un luogo (il Limbo) non afflitto da pene ma solo avvolto dalle tenebre, dove i lamenti non risuonano come gemiti di dolore ma sono sospiri. Qui io risiedo coi bambini innocenti che la morte ha portato via prima che fossero lavati dal peccato originale (col battesimo); qui io risiedo con coloro che non conobbero le tre virtù teologali, e conobbero e seguirono senza colpa tutte le altre. Me se tu ne sei al corrente e puoi farlo, dacci indicazioni per consentirci di giungere al più presto là dove il Purgatorio ha inizio». Ci rispose: «Non ci è assegnato nessun luogo stabilito; mi è permesso andare qua e là; ti farò da guida fin dove posso spingermi. Ma vedi come ormai il sole sta tramontando, e salire di notte è impossibile; dunque dovremo pensare dove trascorrere la notte. Ci sono delle anime, separate qua sulla destra: se sei d'accordo, ti condurrò da loro e te le mostrerò non senza tua soddisfazione». Virgilio gli rispose: «Come è possibile questo? Chi volesse salire di notte sarebbe impedito da qualcosa, o semplicemente non potrebbe farlo?» E il buon Sordello tracciò una riga sul terreno, dicendo: «Vedi? dopo il tramonto non potresti varcare neppure questa linea: non perché te lo impedirebbe altro, se non il buio della notte; è quello a impedire il tuo volere, generando l'impossibilità. Al buio si potrebbe addirittura scendere in basso e camminare a questa stessa altezza, finché il sole è dietro l'orizzonte». Allora il mio maestro, meravigliato, disse: «Portaci dunque là dove dici che si può soggiornare con diletto». Ci eravamo allontanati di poco dal punto dove eravamo, quando mi accorsi che il monte era incavato, proprio come i valloni incavano i monti sulla Terra. Quell'ombra (Sordello) disse: «Andremo là dove la parete si affossa formando un grembo; attenderemo là il nuovo giorno». C'era un sentiero obliquo tra la parete del monte e la pianura, che ci condusse sul fianco dell'avvallamento, nel punto dove l'argine digradava di più di metà della sua altezza. L'oro e l'argento fine, il carminio e il bianco di zinco, l'indaco (azzurro) e il legno lucido e levigato, lo smeraldo vivido come quando si spezza, tutti questi colori, posti dentro quella valletta, sarebbero vinti dall'erba e dai fiori, come il minore è vinto dal maggiore. La natura lì non aveva solo dipinto, ma mescolava fra loro mille profumi soavi che formavano un odore impossibile da definire. Da lì vidi delle anime che sedevano sull'erba e sui fiori, che cantavano a una voce 'Salve, Regina' e che dall'esterno della valle non erano visibili. Il Mantovano che ci aveva condotti lì disse: «Prima che il sole, già basso, tramonti del tutto, non chiedetemi di portarvi giù tra quelle anime. Voi vedrete meglio i gesti e i volti di tutti loro da questo argine, che non scendendo giù nell'avvallamento. Colui che siede più in alto e mostra di aver trascurato il suo dovere, e che non partecipa al canto della preghiera, fu l'imperatore Rodolfo I, che avrebbe potuto risanare le piaghe che affliggono l'Italia, così che ora altri cercano tardivamente di fare lo stesso. L'altro, che sembra confortarlo, governò la terra (Boemia) dove nasce l'acqua che la Moldava porta nell'Elba e che l'Elba porta fino al mare: ebbe nome Ottocaro II e da bambino fu assai migliore di suo figlio Venceslao II da adulto, che vive nell'ozio e nella lussuria. E quello (Filippo III l'Ardito) dal piccolo naso, che sembra così unito all'altro dall'aspetto benevolo, morì in fuga e facendo sfiorire il giglio di Francia: guardate là, come si batte il petto! E vedete l'altro (Enrico I di Navarra) che, tra i sospiri, appoggia la guancia sul palmo della sua mano. Sono rispettivamente padre e suocero del male della Francia (Filippo il Bello): conoscono la sua vita piena di colpe e di vizi, e da qui proviene il dolore che li tormenta così. Quello (Pietro III d'Aragona) che ha aspetto così robusto e che accorda il suo canto con quell'altro dal naso prominente (Carlo I d'Angiò) fu ripieno di ogni valore; e se dopo di lui fosse rimasto quale suo successore il giovinetto che gli siede dietro, il valore si sarebbe trasmesso di padre in figlio, mentre questo non si può dire degli altri eredi; Giacomo e Federico hanno i suoi domini e nessuno dei due ha ereditato il valore dal padre. Accade di rado che la virtù umana si trasmetta di padre in figlio, e questo è voluto da Dio che la concede, perché la si chieda a Lui. Le mie parole sono rivolte anche al nasuto (Carlo I), non meno che all'altro, Pietro, che canta con lui, giacché il regno di Napoli e la Provenza già si dolgono del suo erede (Carlo II lo Zoppo). La pianta è inferiore al suo seme, più di quanto Beatrice e Margherita non possono vantarsi del loro marito (Carlo I) rispetto a Costanza (moglie di Pietro III). Vedete il re dalla vita semplice, Enrico III d'Inghilterra,che siede là in disparte: questi ha lasciato eredi migliori. E quello che siede più in basso di tutti costoro, guardando in alto, è il marchese Guglielmo VII del Monferrato, per il quale Alessandria con la sua guerra fanno piangere il Monferrato e il Canavese». |