Giustiniano
Giustiniano (min. XV sec.)
Imperatore romano d'Oriente dal 527 al 565 d.C., la cui fama è legata soprattutto alla riconquista militare dell'Occidente attraverso l'invasione dell'Africa del Nord e la guerra greco-gotica, nonché all'emanazione del Corpus iuris civilis con cui veniva risistemato il diritto civile romano, creando la base legislativa per i secoli successivi e il Medioevo. Al tempo di Dante le notizie sull'imperatore erano lacunose e questo spiega forse il fatto che il poeta ignori (o mostri di ignorare) i molti misfatti di cui Giustiniano si macchiò durante il suo principato, facendone la figura di un monarca esemplare in pieno accordo con la funzione spirituale della Chiesa. Infondata anche la notizia del monofisismo di Giustiniano, tratta dalle fonti storiche medievali e, forse, da Brunetto Latini (Trésor, I, 87).
Dante lo include tra gli spiriti operanti per la gloria terrena che gli appaiono nel II Cielo del Paradiso, presentandolo nei Canti V, VI e VII della III Cantica: dopo che Dante e Beatrice sono ascesi nel Cielo di Marcurio, si fanno incontro al poeta più di mille anime avvolte dalla luce, una delle quali lo invita a porgli liberamente delle domande (V, 85 ss.). Dante risponde di non sapere il suo nome, né per quale motivo goda di un grado di beatitudine superiore solo a quello dei beati del I Cielo. Il beato accresce il proprio splendore, offuscando totalmente la figura dentro la luce, quindi risponde con un lungo e complesso discorso che occupa integralmente il Canto VI e riguarda principalmente l'Impero, rientrando quindi nel tema politico che è sempre toccato dal VI Canto di ogni Cantica.
Giustiniano si presenta narrando la sua vita (VI, 1-27), dichiarando di essere stato imperatore romano e di aver regnato a Costantinopoli duecento anni dopo il trasferimento della capitale voluto da Costantino, nonché di aver sfrondato le leggi dal troppo e dal vano (allude all'emanazione del Corpus iuris civilis). Confessa di aver aderito in vita all'eresia del monofisismo, dalla quale lo aveva tratto papa Agapito riportandolo alla fede; quindi si era dedicato alla riconquista militare dell'Occidente, affidando tale impresa al generale Belisario. A questo punto Giustiniano sente la necessità di far seguire una aggiunta alla risposta alla prima domanda di Dante, ripercorrendo (28-96) le fasi essenziali della storia di Roma e dell'Impero attraverso il percorso dell'aquila, ovvero del simbolo dell'Impero (il suo racconto spazia dal periodo di Roma monarchica e dell'antica Repubblica fino ai trionfi di Scipione e Pompeo, per poi arrivare a Giulio Cesare, Augusto, Tiberio, Tito e, infine, a Carlo Magno). Al termine di questa digressione (97-111), Giustiniano rivolge una dura invettiva a Guelfi e Ghibellini, colpevoli i primi di contrapporre al sacrosanto segno dell'aquila imperiale i gigli gialli della monarchia francese, i secondi di appropriarsi di quel simbolo di giustizia per i loro interessi di parte.
Alla fine del Canto VI (112-126) Giustiniano risponde alla seconda domanda di Dante, indicando i beati di quel Cielo come gli spiriti che hanno operato per la gloria terrena, i cui desideri sono stati rivolti ai beni materiali e meno all'amore divino, ragion per cui godono di un basso grado di beatitudine. Tuttavia, aggiunge, essi non desiderano una ricompensa maggiore, poiché godono della giustizia divina tanto quanto tutti gli altri spiriti. Indica infine a Dante (127-142) l'anima di Romeo di Villanova, il ministro del conte di Provenza Raimondo Berengario IV la cui opera virtuosa fu sgradita al suo signore: nonostante avesse procurato matrimoni onorevoli alle quattro figlie del conte e avesse aumentato le rendite statali, Raimondo, eccitato dall'invidia di altri cortigiani, gli aveva chiesto conto del suo operato. Romeo se n'era andato povero come quando era venuto e se il mondo sapesse con quanta dignità si ridusse a mendicare, lo loderebbe più di quanto già non faccia. Alla fine del suo lungo discorso, Giustiniano intona l'inno Osanna, sanctus Deus sabaoth, quindi si allontana sfolgorando insieme alle altre anime (VII, 1-9).
Dante lo include tra gli spiriti operanti per la gloria terrena che gli appaiono nel II Cielo del Paradiso, presentandolo nei Canti V, VI e VII della III Cantica: dopo che Dante e Beatrice sono ascesi nel Cielo di Marcurio, si fanno incontro al poeta più di mille anime avvolte dalla luce, una delle quali lo invita a porgli liberamente delle domande (V, 85 ss.). Dante risponde di non sapere il suo nome, né per quale motivo goda di un grado di beatitudine superiore solo a quello dei beati del I Cielo. Il beato accresce il proprio splendore, offuscando totalmente la figura dentro la luce, quindi risponde con un lungo e complesso discorso che occupa integralmente il Canto VI e riguarda principalmente l'Impero, rientrando quindi nel tema politico che è sempre toccato dal VI Canto di ogni Cantica.
Giustiniano si presenta narrando la sua vita (VI, 1-27), dichiarando di essere stato imperatore romano e di aver regnato a Costantinopoli duecento anni dopo il trasferimento della capitale voluto da Costantino, nonché di aver sfrondato le leggi dal troppo e dal vano (allude all'emanazione del Corpus iuris civilis). Confessa di aver aderito in vita all'eresia del monofisismo, dalla quale lo aveva tratto papa Agapito riportandolo alla fede; quindi si era dedicato alla riconquista militare dell'Occidente, affidando tale impresa al generale Belisario. A questo punto Giustiniano sente la necessità di far seguire una aggiunta alla risposta alla prima domanda di Dante, ripercorrendo (28-96) le fasi essenziali della storia di Roma e dell'Impero attraverso il percorso dell'aquila, ovvero del simbolo dell'Impero (il suo racconto spazia dal periodo di Roma monarchica e dell'antica Repubblica fino ai trionfi di Scipione e Pompeo, per poi arrivare a Giulio Cesare, Augusto, Tiberio, Tito e, infine, a Carlo Magno). Al termine di questa digressione (97-111), Giustiniano rivolge una dura invettiva a Guelfi e Ghibellini, colpevoli i primi di contrapporre al sacrosanto segno dell'aquila imperiale i gigli gialli della monarchia francese, i secondi di appropriarsi di quel simbolo di giustizia per i loro interessi di parte.
Alla fine del Canto VI (112-126) Giustiniano risponde alla seconda domanda di Dante, indicando i beati di quel Cielo come gli spiriti che hanno operato per la gloria terrena, i cui desideri sono stati rivolti ai beni materiali e meno all'amore divino, ragion per cui godono di un basso grado di beatitudine. Tuttavia, aggiunge, essi non desiderano una ricompensa maggiore, poiché godono della giustizia divina tanto quanto tutti gli altri spiriti. Indica infine a Dante (127-142) l'anima di Romeo di Villanova, il ministro del conte di Provenza Raimondo Berengario IV la cui opera virtuosa fu sgradita al suo signore: nonostante avesse procurato matrimoni onorevoli alle quattro figlie del conte e avesse aumentato le rendite statali, Raimondo, eccitato dall'invidia di altri cortigiani, gli aveva chiesto conto del suo operato. Romeo se n'era andato povero come quando era venuto e se il mondo sapesse con quanta dignità si ridusse a mendicare, lo loderebbe più di quanto già non faccia. Alla fine del suo lungo discorso, Giustiniano intona l'inno Osanna, sanctus Deus sabaoth, quindi si allontana sfolgorando insieme alle altre anime (VII, 1-9).